Le ragioni dell'ammissibilità
Referendum sull’eutanasia, ecco perché la Consulta non lo può bocciare
Il referendum sull’abrogazione dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) sembra rispondere a un profondo bisogno di compassion, ma anche dei valori classici della pietas (una moralità interiorizzata in pratiche doverose). La malattia non deve essere vissuta come una perdita di dignità. Tuttavia la medicina presenta oggi potenzialità tecniche estreme nell’allungare artificialmente le vite in situazioni che possono risultare intollerabili, anche se alleviate da terapie del dolore, che riducono i corpi ad anime sospese. L’umanesimo che deve ispirare le nostre leggi, e in ogni caso il diritto che ricaviamo da esse o da norme superiori di rango costituzionale, ci ricordano che non è permesso costringere nessuno a forme di vita intollerabili per la persona. La vita artificiale medicalmente coatta non è conforme al modello di dignità costituzionale oggi accettabile. Con tutto quanto consegue sui “pesi insopportabili” che i dottori della legge non devono imporci (Luca, 11,46).
Il discorso riguarda potenzialmente tutti, fuori da ideologie e parrocchie, per quanto siano una minoranza di scarso peso elettorale i malati che alla fine decidono di anticipare il congedo. Il tema dei loro diritti fondamentali, anche se sono “diritti infelici”, è ormai al centro del dibattito biogiuridico, e ha già costretto la Corte costituzionale, nella latitanza del Parlamento e della politica, a dichiarare la non punibilità dell’aiuto al suicidio in un numero circoscritto di patologie dove le persone, aiutate da trattamenti di sostegno vitale, nel caso di incoercibili sofferenze possono ottenere l’autorizzazione a morire per mano propria seguendo, in assenza di una legge ad hoc, le procedure della normativa sulle DAT (disposizioni anticipate di trattamento). Al centro di questa decisione (C. cost. n. 242/2019) c’è la non punibilità per chi aiuta, ma anche il diritto del malato: perché se il malato non avesse il diritto non solo al rifiuto delle terapie (da tempo riconosciuto pienamente dopo il caso Welby, addirittura senza dover giustificare il perché), comprese quelle palliative, ma anche a non subire dolori insopportabili dopo questo rifiuto, la decisione della Corte non avrebbe avuto una base normativa e morale. Essa è circoscritta alla situazione di malattie irreversibili accompagnate da gravi sofferenze ineliminabili col semplice rifiuto di terapie; ma ci sono casi nei quali anche l’aiuto al suicidio è impossibile, per l’incapacità del paziente di attuare la condotta esecutiva. Non resta allora che un aiuto attivo del terzo.
Questo tipo di vicende ha ispirato la campagna referendaria dell’Associazione Coscioni che ha promosso l’abrogazione del reato di omicidio del consenziente, in assenza di qualsiasi decisione parlamentare di rivedere la disciplina del fine-vita dopo l’intervento estremo della Corte.
Tuttavia questa lettura del referendum non sarebbe completa se ad essa non si aggiungesse una interpretazione molto più liberale-individualistica del quesito, che è altrettanto presente nella mente dei proponenti. L’idea è che l’abrogazione dell’art. 579 c.p. introduca il pieno diritto di disporre della propria vita al di fuori di ogni necessità di giustificare la scelta, purché si tratti di consenso valido (non estorto con inganno o errore, viziato da minore età o malattia mentale). L’invalidità del consenso implica già oggi, e così in futuro, la responsabilità per omicidio doloso (art. 575 c.p.).
In caso di disponibilità della vita piena al di fuori di condizioni patologiche non sarebbe più necessario per il malato, o per chiunque, andare in una clinica svizzera – ciò oggi si deve fare se si intende ottenere anche solo ciò che la Corte ha stabilito con la sent. 242/2019, essendo quella disciplina del tutto inapplicata dalle Asl – anziché suicidarsi alle condizioni restrittive della Consulta: basterebbe ricorrere direttamente alla morte eseguita per mano altrui, che non ha bisogno di nessuna “spiega”.
È vero allora che il referendum, così inteso, non si limiterebbe a eliminare una fattispecie per ottenere il riconoscimento di diritti oggi criminalizzati. Esso intenderebbe veramente cancellare del tutto l’omicidio del consenziente, senza condizioni.
Ma se così è, se si accede a questa diversa lettura, il senso del “sì” cambia profondamente: l’elettore non sarebbe più chiamato a decidere soltanto dei diritti del malato in certe situazioni intollerabili, anche se da estendere in via legislativa.
Infatti una abrogazione ‘incondizionata’ avrebbe alcuni effetti che non è chiaro se siano indesiderati per gli stessi proponenti. Cancellare l’omicidio di chi consente alla propria soppressione da parte di terzi, semplicemente perché la propria vita non ha più senso, significa legittimare anche le condotte che potrebbero risultare letali, benché non sia certo questo esito. Acconsentire a rischi gravi è meno che chiedere di morire. Dunque l’organizzazione di sport mortali con scommesse non più clandestine o l’assenso a rischi lavorativi intollerabili diventerebbero leciti? Sarebbe l’abrogazione, previo consenso, dei diritti di sicurezza del lavoro? la reintroduzione dei gladiatori al Colosseo?
Certo i divieti di alcune di queste attività potrebbero restare, trattandosi di norme non abrogate e diverse dall’art. 579 c.p., e dunque non ci sarebbe una privazione di tutela di diritti costituzionalmente garantiti tale da vietare la celebrazione del referendum (cfr. C. cost. n. 35/1997). Ma forse non tutte quelle attività sono coperte da altre norme, o non a sufficienza. E comunque la contraddizione rimarrebbe: perché se posso chiedere di essere ucciso, senza neppure motivarlo (se non per opportunità probatorie), non dovrei poter disporre dei rischi per salute e vita, almeno dietro un compenso? È tutta una cultura liberale priva di protezioni (da taluno ritenute) “paternalistiche” che si farebbe strada accanto a, ma anche in dialettica con la banale pietas per il malato. Zarathustra che supera ogni morale vs. Enea che rispetta interiormente un canone etico condiviso. Scelte personali intangibili e non sindacate, al posto di doveri misericordiosi regolati.
Un elemento che preserva l’ammissibilità del referendum da lacune di tutela o contraddizioni nella stessa intelligibilità del quesito (v. le condizioni stabilite dalla C. cost. n. 16/1978) è dato dalla oggettiva permanenza nel sistema dell’art. 580 c.p., che non è stato sottoposto a referendum. Tutta l’iniziativa referendaria incentra la sua promozione sui casi di fine-vita, anche se il quesito non poteva inserire il riferimento a tali condizioni nel testo oggetto del voto abrogativo.
Il fatto che il referendum resti ancorato a queste ipotesi lo dimostra la sua mancata estensione all’aiuto al suicidio. Che senso ha mantenere un reato che continua a punire l’aiuto al suicidio, salve le limitate aperture della sentenza della Consulta, quando si pensa invece di “liberalizzare” addirittura il reato più grave dell’omicidio del consenziente? Sarebbe una eutanasia davvero contraddittoria.
La mancata richiesta di referendum per l’art. 580 c.p. rafforza la leggibilità e la comprensibilità del quesito sull’art. 579 c.p., il quale completa la tutela apprestata dalla prima fattispecie per come rivista dalla Corte. Il voto resta legato a ipotesi di diritti la cui disciplina dovrà necessariamente essere coordinata con quella dell’art. 580 c.p.: un “modello” che non prevede la piena liberalizzazione del suicidio assistito. E dunque si imporrà con una riscrittura dell’art. 580, oggi troppo limitato dal requisito indeterminato dei “trattamenti di sostegno vitale” introdotti dalla Corte, anche, nello stesso tempo, quella dell’art. 579 c.p.
Non proporre il referendum per l’art. 580 c.p. significa oggettivamente aprire un varco verso una disciplina comune legata al fine-vita o ad analoghe situazioni, sia per il 579 e sia per il 580, perché questo è il vero tema: riconoscere e normare i diritti, non abolire semplicemente i divieti. La proposta referendaria è dunque “coerente” al sistema attuale se viene letta come input verso una diversa disciplina non di diritti individuali di pretendere un aiuto per uccidersi o farsi uccidere immotivatamente: proprio la conservazione dell’art. 580 delimita il campo successivo al “sì” referendario, e anche in una prospettiva di allargamento delle condizioni di aiuto a morire traccia un recinto di solidarietà, anziché di pura separazione della persona.
La democrazia penale, del resto, non si realizza mai con un sì o un no. Questa vicenda già ce ne offre una lezione piuttosto evidente. Io mi auguro che le sottigliezze dei giuristi non si rivelino sopraffattrici del buon senso e della giustizia sostanziale. È una battaglia per i diritti civili non rinviabile, che i partiti hanno dimostrato di subordinare a troppe valutazioni estranee, le stesse che appesantiscono quotidianamente la loro azione e distanziano il consociato da una partecipazione attiva alla polis. Il referendum è la dimostrazione che la partitocrazia può essere un ostacolo, anziché uno strumento democratico per il riconoscimento dei diritti. Valga questa consapevolezza a essere un monito per la Consulta: il referendum è oggi ammissibile (nella lettura proposta) anche se la disciplina che ne risulta non è compiutamente autoapplicativa, tanto più se in vista di un necessario intervento parlamentare sollecitato da tre anni proprio dalla Corte costituzionale.
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