Le motivazioni della Consulta
Referendum sull’eutanasia, perché la Corte ha fatto una scelta politica
Che si trattasse di una scelta politica, era chiaro fin dall’inizio. La sentenza dalla Consulta con le motivazioni sull’inammissibilità dei Referendum Eutanasia Legale e Cannabis non ha fatto altro che confermare la natura politica e conservativa della decisione, che non solo va contro la Costituzione, ma assesta un duro colpo al diritto al referendum nel nostro Paese. Per poter dichiarare inammissibile il referendum sull’abrogazione parziale del reato di “omicidio del consenziente”, la Corte ha anticipato in sede di ammissibilità un giudizio astratto di legittimità costituzionale della normativa, non solo errato in molti passaggi, ma soprattutto non previsto dalla procedura costituzionale referendaria.
La Corte ritiene che l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) sia una norma penale costituzionalmente necessaria: ma come fa a essere necessaria una norma che in tutta la storia repubblicana non è mai stata applicata se non in rarissimi casi – e tutti comunque riconducibili a contesti di fine vita – a fronte di centinaia di persone che ogni giorno affrontano gravi malattie e sofferenze? Ed è solo attraverso tale anticipazione di giudizio che i giudici hanno potuto far valere (a maggioranza) una precisa linea politica, richiamando impropriamente come motivazione alla base della decisione la tutela dei soggetti più deboli, che sarebbero invece stati protetti dalla parte della norma, appositamente salvata dai promotori e che a seguito del referendum sarebbe restata in vigore. La Corte, poi, accusando i promotori del referendum di provocare la liberalizzazione dell’omicidio del consenziente anche in situazioni di fragilità familiare, finanziaria, sociale, affettiva o addirittura al mero “taedium vitae” è incorsa nel medesimo errore del Presidente Amato nel richiamare l’esempio del ragazzo ubriaco.
La giurisprudenza è chiara sul punto: tutte queste fragilità sono sempre ricondotte al concetto di deficienza psichica in quanto determinano disagi psicologici che sono sempre tutelati ai sensi del comma 3 dell’art. 579 c.p. In altre parole: non è la situazione familiare in sé a determinare un’eventuale richiesta di morte bensì il malessere psichico che tale situazione provoca. Ed il malessere psichico è indiscutibilmente protetto dal comma 3 che rimaneva intatto a garanzia delle persone vulnerabili e del bene vita in generale. Non sfugge poi come le motivazioni abbiano apertamente sconfessato altre dichiarazioni del Presidente Amato nella sua conferenza stampa del 16 febbraio scorso. Nella sentenza, infatti, non sono incluse – né avrebbero potuto esserlo – due questioni sollevate da Amato: 1) il titolo della campagna politica “eutanasia legale” che non aveva alcun rilievo ai fini del giudizio di ammissibilità, essendo il titolo del referendum già stato deciso della Corte di cassazione; 2) l’esempio sulla legalizzazione dell’omicidio della persona consenziente “che ha un po’ bevuto”. Una mistificazione, perché, come già detto, il referendum non avrebbe abrogato il terzo comma dell’art 579, che tratta come “omicidio” volontario quello commesso contro una persona in condizioni di deficienza psichica “per abuso di sostanze alcoliche”.
Per proteggere l’esercizio di diritti costituzionali e in piena garanzia di democrazia, la Corte costituzionale avrebbe invece potuto – e dovuto – ammettere il referendum che rispetta i criteri di ammissibilità sapendo che, se necessario, ogni ulteriore limite avrebbe poi potuto essere fissato dalla stessa Corte al primo caso di incidente di costituzionalità sollevato dai Tribunali. Oppure la Corte costituzionale avrebbe avuto la possibilità di valutare questa strada: trattenere a sé la questione pregiudiziale della normativa di risulta – che avrebbe creato un presunto (ma da noi non condivisibile) vuoto di tutela – decidendola in un momento successivo, ovvero al verificarsi del raggiungimento del quorum e della vittoria dei sì, dunque lasciando libero il voto referendario. Nel breve termine ci sarebbe inoltre stata la possibilità per il Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro interessato, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, di ritardare l’entrata in vigore dell’abrogazione referendaria per 120 giorni dando la possibilità a Governo e Parlamento di intervenire secondo le proprie prerogative. Ma tutto questo non si è voluto fare, per scelta politica.
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