Le testimonianze in aula
Regeni, i testimoni Renzi e Minniti sul ruolo dell’Italia: “Gli inglesi non hanno detto la verità”, il ritardo della Farnesina e le telefonate con Al Sisi
Le aspettative per questa nuova udienza erano alte questa mattina. D’altronde i testimoni nel processo sulla morte di Giulio Regeni oggi erano importanti. Matteo Renzi e Marco Minniti, rispettivamente ex premier e sottosegretario di stato con delega ai servizi segreti, durante il periodo in cui il ricercatore italiano fu rapito e ucciso. Nella città giudiziaria di Roma, i due si sono presentati per essere ‘interrogati‘ dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Sergio Colaiocco nel procedimento contro i quattro agenti egiziani. Un processo il cui sviluppo in questi anni è stato ampiamente ostruito e ostacolato dal Cairo.
Regeni, il testimone Renzi sul ruolo dell’Italia nei giorni del rapimento
Il primo a parlare è stato Renzi, ripercorrendo le tappe della reazione italiana alla notizia del rapimento di Regeni e di cosa abbia fatto personalmente una volta saputo l’accaduto. “Quando accade questo delitto efferato noi reagimmo arrivando al richiamo dell’ambasciatore. Io dopo tragica vicenda di Giulio ho incontrato Al Sisi al G20 in Cina nel settembre del 2016. Lo incontrai per esprimere delusione. Agli egiziani dicemmo subito ‘non accetteremo verità di comodo’: questo è il filo rosso dei mesi successivi alla morte di Regeni. A marzo del 2016 l’Egitto ci diede una verità di comodo che noi respingemmo”, ha raccontato l’ex premier.
Processo Regeni, il ‘ritardo’ della Farnesina
Al centro della questione c’è anche la comunicazione tra gli apparati italiani, in primis tra il ministero degli Esteri e la presidenza del Consiglio. “Se mi fosse stato chiaro da subito avremmo potuto attuare qualcosa in più ma il comportamento della Farnesina è stato legittimo”, ha detto Renzi in aula, che poi parla proprio delle tempistiche: “Vengo informato il 31 gennaio del 2016 dalla Farnesina e mi dissero che qualcosa era accaduto, qualcosa di grave ad un nostro ricercatore. Noi mettiamo in campo tutti i nostri strumenti perché c’era crescente preoccupazione da parte degli apparati che, come è fisiologico, erano già a conoscenza della vicenda. Se dal 26 al 31 gennaio la Farnesina ritiene di ‘tenere bassa’ una vicenda così complessa avrà fatto le sue valutazioni“. “Ogni giorno scompaiono dieci cittadini italiani al giorno, per la maggior parte si risolvono, la rilevanza politica a me viene posta il 31 gennaio”, ha poi aggiunto.
Le telefonate tra Renzi e Al Sisi
Renzi parla anche dello scambio avuto con il presidente egiziano dopo la morte del ricercatore friulano: “Io ho avuto 3 o 4 telefonate con Al Sisi tra febbraio e marzo del 2016. La prima telefonata subito dopo la notizia ufficiale della morte e gli dissi che saremmo andati fino in fondo e che era una vicenda inaccettabile e chiedemmo la totale collaborazione ma non sono mai entrato nel merito delle indagini. Lui mi disse che da padre capiva il dolore dei genitori e della famiglia”.
Processo Regeni, Renzi: “Gli inglesi non hanno detto la verità”
L’ex presidente del Consiglio continua, interrogato dai procuratori di Roma, a dare la sua versione. Il succo è che lui prima del 31 gennaio non sapeva nulla. Il corpo di Giulio Regeni viene ritrovato il 5 febbraio 2016. “Se ci fosse stata allerta rossa nulla avrebbe impedito all’ambasciatore di chiamarmi, aveva il mio numero di cellulare”, dice Renzi. “Io con l’ambasciatore parlo il 31, non prima e lo chiamo io, e lui mi dice che è una vicenda drammatica e temeva epilogo drammatico. In questa vicenda l’Italia è voluta andare fino in fondo e non ha fatto come gli inglesi che, a mio avviso, non hanno detto tutta la verità e mi riferisco all’università inglese che avrebbe dovuto collaborare di più. Io chiesi all’allora primo ministro Teresa May massima collaborazione“. “L’Italia non poteva fare di più, non abbiamo messo le relazioni diplomatiche davanti alla morte di un cittadino italiano ed è chiaro che la morte di Giulio Regeni è avvenuta per mano egiziana” ha concluso Renzi.
La testimonianza di Minniti: gli egiziani volevano darci una finta verità
Dopo Renzi è stato il turno di Minniti, anche lui sentito come testimone visto il suo ruolo istituzionali ai tempi dell’assassinio di Regeni. Anche l’ex ministro, e attuale presidente della Fondazione Med-Or, in aula ha ripercorso quanto avvenne ormai otto anni fa e quale fu la sua percezione dei fatti. “Ho avuto la sensazione che la banda di finti rapinatori fatti ritrovare uccisi fu un modo per darci una finta verità, un metodo già usato con altri stranieri uccisi in Egitto che aveva funzionato. Un francese fu massacrato di botte in commissariato e la magistratura francese accettò la versione fornita dal Cairo. Noi invece mettemmo in chiaro che non avremmo accettato azioni di depistaggio“.
Minniti: “Sono stati gli apparati egiziani a uccidere Giulio”
Secondo Minniti, il depistaggio organizzato subito dopo il suo primo incontro con Al Sisi, l’8 marzo del 2016, “fu un modo per coprire i Servizi egiziani e vista la mancanza di collaborazione decidemmo di richiamare l’ambasciatore. Siamo un grande Paese e un grande Paese non dimentica i propri cittadini che muoiono all’estero. Fui avvisato dopo alcuni giorni perché in Egitto sono frequenti i ‘fermi non ufficiali’ di cittadini stranieri“. “Il mio convincimento è che sono stati gli apparati egiziani ad uccidere Giulio e gli imputati sono i responsabili” ha concluso lapidario l’ex ministro.
Minniti: Egitto autocrazia, non fui informato immediatamente
“Io parto con questo convincimento: erano stati gli apparati egiziani” i responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni, spiega ancora Minniti. Una percezione ‘provata’, data infatti “da un’esperienza personale e da informazioni scambiate con intelligence di altri Stati”. “L’8 marzo in Egitto mi hanno tenuto un’ora e mezza per i controlli. Qualcuno voleva farmi capire che non ero il benvenuto, poi è venuto il capo del cerimoniale a prendermi”, ricorda l’ex ministro, che ribadisce con quale spirito era andato al Cairo: “Volevo lasciare tre messaggi. Il primo: non rinunceremo mai alla verità, poi ‘è mio convincimento che possano essere coinvolti gli apparati egiziani’, e infine ‘chiedo collaborazione‘”.
“Sono stato informato dal direttore dell’Aise il 31 gennaio e, inoltre, nella stessa giornata ho ricevuto una telefonata del ministro degli Esteri”, continua Marco Minniti. Anche lui, come Renzi, sottolinea la mancata comunicazione: “Non fui informato immediatamente perché la sparizione di cittadini in Egitto non era rara, si trattava di ‘fermi non ufficiali’. Nei mesi precedenti c’era stata una vicenda che aveva riguardato cinque statunitensi che furono rimpatriati con un volo di linea”, con le autorità che lo appresero in un secondo momento. “Nei giorni successivi il direttore di Aise viene mandato a Il Cairo. Le autorità egiziane non fanno capire mai che la questione è chiusa completamente. Noi tendiamo a pensare che le autocrazie siano un monolite, ma non è così”, aggiunge Minniti, concludendo: “Chiamai io Renzi e lui mi disse che mi stava chiamando per organizzare i passi successivi, tutto avvenne praticamente in contemporanea”.
Processo Regeni, l’avvocata della famiglia del ricercatore: “Giulio non era nei servizi”
L’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, è sembrata da una parte soddisfatta delle audizioni di Renzi e Minniti. “I testi che abbiamo sentito oggi hanno dichiarato che loro avevano percepito fin da subito che tutto il male del mondo che si era abbattuto su Giulio era opera degli apparati di sicurezza egiziani e che hanno condiviso questa intuizione con le intelligence dei Paesi alleati. È molto importante il fatto che è emerso con chiarezza che l’Egitto non è un Paese sicuro, neanche per gli italiani“, ha detto la legale dei genitori di Giulio. E “Minniti ha detto in maniera chiara che l’Egitto è un regime autoritario e che di fatto è stata la paranoia di questo regime a decidere le sorti di Giulio e che Giulio era un ricercatore brillante, che faceva un lavoro legittimo di ricerca e non ha mai lavorato per i Servizi“, ha aggiunto Ballerini.
L’avvocata: “Una comunicazione dell’ambasciata rimasta su qualche tavolo”
Ma c’è anche un altro lato della medaglia che emerge dalle testimonianze, su cui l’avvocata riflette: “Riteniamo grave e doloroso il fatto che una comunicazione dell’ambasciata italiana del 28 gennaio in cui si chiedeva la massima attenzione sia rimasta evidentemente su qualche tavolo e non abbia consentito di attivare tutte le forze che servivano per salvare Giulio. Questo provoca molto dolore”.
© Riproduzione riservata