All’indomani della decadenza di Piercamillo Davigo da consigliere del Csm, è partita fra i davighiani di stretta osservanza la caccia al traditore. Il primo a finire sul banco degli imputati è stato Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato mafia che con il suo voto è stato determinante per spedire a Milano, con biglietto di sola andata, l’ex pm di Mani pulite. Di Matteo era stato candidato al Csm nelle liste davighiane alle elezioni suppletive per la categoria dei pubblici ministeri che si erano tenute esattamente un anno fa. La sua candidatura avvenne a furor di popolo, con una presentazione in grande stile: direttamente dal palco della festa del Fatto Quotidiano alla Versiliana.
Il magistrato siciliano, intervistato da un euforico Marco Travaglio, affermò di «non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo», e di voler rappresentare una candidatura «autonoma e indipendente» dopo lo scandalo che aveva coinvolto la magistratura con il Palamaragate. Ed “autonomo” ed “indipendente” Di Matteo lo è stato per davvero, votando lunedì scorso «con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza», a favore della decadenza di Davigo dal Csm per sopraggiunti limiti di età.

Una presa di distanza forte dagli altri davighiani della prima ora, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Sebastiano Ardita che, invece, si erano battuti con il coltello fra i denti per perorare la causa di Davigo, avventurandosi nell’improbabile tesi che si potesse rimanere al Csm anche da pensionati. Tesi stroncata sia dai vertici della Corte di Cassazione che dal vice presidente David Ermini e, quindi, dal Quirinale. La convivenza fra Di Matteo e Davigo al Csm non era mai stata particolarmente idilliaca. Difficile la coabitazione sotto lo stesso tetto di due magistrati “iper mediatici”. Di Matteo, comunque, aveva anche rotto con la pattuglia dei laici in quota M5s al Csm, Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, quando la scorsa primavera sferrò nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un attacco pancia a terra. Durante la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7, in collegamento telefonico, a proposito delle scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, Di Matteo, senza peli sulla lingua, aveva rinfacciato a Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018.

Parole pesantissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigilli grillino, scatenando immediatamente una violenta polemica politica. «I consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio», dissero i laici pentastellati. Adesso, dunque, sulle chat delle toghe di Autonomia&indipendenza, tutti a chiedersi il perché di questa candidatura. All’inizio della carriera Di Matteo aveva strizzato l’occhio ai colleghi di sinistra dei Movimenti per la giustizia, il gruppo di Armando Spataro, ora confluiti insieme a Magistratura democratica nel cartello progressista Area. Crescendo abbracciò i centristi di Unicost, la corrente dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara. Nelle liste di Unicost venne eletto alla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, divenendone il presidente per un intero mandato. Senza Davigo al Csm il gruppo davighiano è destinato a sciogliersi come neve al sole.

La parabola di Autonomia e Indipendenza è impietosa: nel 2016 dopo qualche mese dalla costituzione, il botto alle prime elezioni, quelle dell’Anm, con quasi 1300 voti. Poi nel 2018 il plebiscito di Davigo con oltre 2500 voti. Ieri, il tracollo: 750 i voti per il rinnovo del parlamentino togato. Voti che non sarebbero sufficienti per eleggere nemmeno un consigliere al Csm. La compagine attuale a Palazzo dei Marescialli è di quattro, compreso appunto Di Matteo. Le elezioni per l’Anm, ieri lo scrutinio, segnano una buona affermazione per la destra giudiziaria di Magistratura indipendente, dimezzamento dei voti per Unicost post Palamara, stabile il cartello progressista, successo per gli “anticorrente” di Articolo 101.  Si chiude dunque un’epoca per i davighiani. Non è stata premiata, dopo il Palamaragate, l’alleanza innaturale con la sinistra giudiziaria. Il futuro è quanto mai incerto. L’assenza di Davigo già si fa sentire.