Ci siamo ritrovati ieri, in Senato, con le organizzazioni della campagna Ero straniero a parlare di immigrazione, lavoro, diritti e della necessità di una riforma a vent’anni dalla legge Bossi-Fini insieme ad alcuni ospiti, nonostante la crisi politica in corso. Nella stessa sala Zuccari, più di cinque anni fa, si è tenuta la prima iniziativa pubblica che ha portato alla creazione della campagna. Il titolo di quel convegno non era molto diverso da quello di ieri, “Come vincere la sfida dell’immigrazione? Accoglienza, inclusione, lavoro: le riforme necessarie a partire dai Comuni e dal superamento della Bossi-Fini”.
I nodi da sciogliere, evidentemente, rimangono gli stessi, nonostante nel frattempo siano successe molte cose: alcune positive, in particolare sul fronte dell’accoglienza in Italia e sul ruolo dei Comuni; molte altre decisamente negative, e penso ai decreti sicurezza e quanto continua ad accadere sul fronte del Mediterraneo centrale. Ciò che sicuramente non è cambiata, nel nostro Paese, è la normativa che regola l’ingresso per lavoro dei cittadini stranieri e il loro soggiorno. A confermarlo, i dati della Fondazione Moressa, le testimonianze del mondo produttivo – dell’artigianato di Cna e dei lavoratori e delle lavoratrici dell’agro pontino seguiti dalla Flai Cgil – e le riflessioni degli esperti che ieri sono intervenuti, portando nuovi elementi a riprova di quanto ormai quel sistema introdotto vent’anni fa sia superato e decisamente inefficace.
Anche io ho voluto condividere un’esperienza personale, ma significativa e, ahimè, comune a molti. Qualche tempo fa, dopo una caduta, sono dovuta rimanere a casa, a riposo, senza potermi muovere troppo. Avevo bisogno di essere aiutata e, tramite mie conoscenze, è venuta a trovarmi una giovane donna peruviana che avrebbe fatto al caso mio. Durante il nostro primo incontro, è venuto fuori che non aveva i documenti: era arrivata in Italia alcuni mesi prima con un visto turistico per raggiungere il suo fidanzato che vive qui. Il visto era scaduto ma lei era rimasta, lavorando presso alcune famiglie in nero. Ho dovuto fare a meno di lei. Mi sono dunque ritrovata nella situazione classica che tante volte ho descritto per spiegare l’insensatezza delle leggi che abbiamo sull’immigrazione in Italia. Io che ho bisogno di assumere una persona, garantendole un contratto e un reddito; lei che ha bisogno di lavorare, anche per potersi sistemare con i documenti. Ma non si può fare.
Ancora, dopo tanti anni, non mi capacito che ci sia un meccanismo così contorto, che sembra fatto apposta per ostacolare le persone straniere che vogliono vivere e lavorare nella legalità e far parte della nostra società, portando il loro contributo, prezioso e, ormai, indispensabile. Spero, quindi, che il lavoro fatto da decine di organizzazioni in questi cinque anni con la campagna Ero straniero riesca, finalmente, a rompere questo schema. Sono sicura che le 90.000 firme raccolte in sei mesi, le tante iniziative pubbliche, le indagini, i report, e tutto quanto insieme abbiamo fatto, ci permetta di ottenere se non tutte le riforme che la legge d’iniziativa popolare prevede, almeno una di queste, quella più di buon senso, di cui tutti capiscono la necessità: la possibilità di regolarizzare le persone già presenti in Italia a fronte di un contratto di lavoro. A questo obiettivo, dopo l’appuntamento di ieri in Senato, continueremo a lavorare nei prossimi mesi – se la legislatura proseguirà – e oltre, cercando di trovare in Parlamento un buon numero di deputati e senatori finalmente pronti, su questi temi, a condividere un approccio concreto e più vicino alla realtà del nostro Paese.