L’eco della risacca, florilegio di oceani che sembravano sbocciare simili a giardini di fiaba davanti gli occhi dei popoli europei, ha composto la melodia su cui si è edificato il diritto internazionale.
L’apertura delle grandi rotte marittime, a partire dalla fine del XV secolo, come ricorda Carl Schmitt in Il Nomos della terra, pose problemi filosofici e giuridici particolarmente rilevanti che avrebbero influenzato lo sviluppo della sovranità statale e delle relazioni istituzionali tra Stati.

Francisco de Vitoria, autore del trattato De Indis et de jure belli, e il Francisco Suarez del De Legibus avrebbero direttamente influenzato Grozio, ponendo le basi morali per la formulazione di dispositivi di regolazione degli spazi privi di sovranità, e quindi della fondazione stessa del diritto internazionale.
La reviviscenza di interesse per tutti questi autori nel cuore della società digitale non è mera casualità.
Riflettendo sul cyberspazio e sulle sue regole, tecniche e normative, Johannes Thumfart ha titolato un suo noto saggio Francisco de Vitoria and the Nomos of the Code, chiaro omaggio sia al teologo che a Carl Schmitt.

Vero è che i paradigmi etici che hanno modellato e implementato un diritto così peculiare come quello internazionale, basato su accordi in cui i fattori reputazionali e spesso privi di una forza sovrana sembrano attagliarsi, giuste le necessitate contestualizzazioni storiche, alla società digitale.
Perché globalizzazione e digitale, esattamente come l’apertura delle rotte oceaniche, esondano dal limitato perimetro della sovranità terricola, si insinuano negli interstizi della fluidità delle regole tecniche e dei codici espressivi e sociali dei sistemi altamente tecnologizzati, e fanno apparire gli Stati al pari di soggetti lillipuziani.

La recentissima proposta, nata in seno al Consiglio di Sicurezza ONU, di istituire un organismo di regolazione delle intelligenze artificiali, sul pari di quello che sovraintende il volo aereo, va esattamente in questa direzione.
La sovra-nazionalità della problematica, enorme e di rara complessità, trascende le possibilità dei singoli Stati, per quanto potenti, evoluti e votati alla innovazione.
Del pari, la preoccupazione ONU è anche quella di evitare che lo sviluppo di sempre più complesse e articolate intelligenze artificiali sia demandato in via esclusiva a soggetti privati.
Sul successo e sulle potenzialità di un simile organismo non è facile pronunciarsi, perché il diritto internazionale e le relazioni istituzionali nel ventre della globalizzazione sono mutevoli, a volte più affini alla astrologia che non a una scienza sociale più o meno consolidata.
Hedley Bull definiva non a caso le relazioni internazionali ‘società anarchica’.

Quel che però si può dire sin da subito è che un simile organismo non dovrebbe dedicarsi a un approccio esclusivamente giuridico della regolazione delle intelligenze artificiali.

Il diritto è scienza lenta, statica, ha tempi geologici di sedimentazione, difficilmente compatibili con l’accelerazione tipica della tecnologia avanzata, e soprattutto con le differenze ordinamentali che caratterizzano i singoli Stati.
E qui, esattamente qui, torniamo all’etica e alla teologia. L’approccio di regolazione morale all’intelligenza artificiale è irrinunciabile.
La stessa Unione Europea lo ha ben compreso, con la sua Carta etica delle intelligenze artificiali.

E del pari, a livello teorico, preziosissime sono le riflessioni del teologo Paolo Benanti, fondatore del canone della algoretica, l’etica applicata agli strumenti algoritmici, o di Luciano Floridi che all’etica dell’intelligenza artificiale ha dedicato un importante, omonimo volume edito nel 2022 da Raffaello Cortina.
L’aspetto essenziale è quello di una riconduzione del paradigma tecnologico al fattore umano, praticando un umanesimo digitale, al centro ad esempio delle attività di Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, presieduta da Luciano Violante, che continui a postulare la centralità dell’essere umano in una società sempre più tecnologizzata.

Andrea Venanzoni

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