Non è più quella del 416 bis
Relazione della Dia: la mafia non c’è più e l’antimafia indaga sugli anni ’90
La Direzione Investigativa Antimafia (Dia) conduce indagini su Silvio Berlusconi, come mandante di stragi, da oltre trent’anni con grande impiego di forze e di denaro, e nonostante i fallimenti siano già stati tre. Lo si legge a pagina 6 della Relazione del secondo semestre del 2021 depositata due giorni fa al Parlamento. E’ scritto nelle stesse pagine in cui si spiega che la mafia non esiste più, per lo meno quella che l’articolo 416 bis del codice penale descrive come un’associazione di persone che “si avvalgono della forza di intimidazione”, dell’assoggettamento e del controllo del territorio. E che usavano anche la violenza come forma di intimidazione.
Oggi esistono sostanzialmente comitati d’affari che preferiscono fare accordi piuttosto che estorsioni e minacce. E gli uomini della Dia corrono il rischio di restare disoccupati. Ma hanno trovato un nuovo lavoro, che altro non è se non il rafforzamento di quello iniziato da oltre trent’anni, cioè da un periodo di poco successivo ai giorni della nascita, nel 1991, dell’Agenzia investigativa. Non c’è più la mafia. “Tuttavia-si legge nella relazione- malgrado la più attuale linea d’azione di Cosa nostra sia quella di ridimensionare il ricorso alla violenza…la Dia, attraverso le sue articolazioni centrali e territoriali, già da tempo, sta eseguendo mirate attività investigative sulle ‘stragi siciliane’ del 1992 e sulle cd. ‘stragi continentali’ del 1993-1994, su input di specifiche deleghe ricevute dalle competenti Autorità giudiziarie del territorio nazionale”. “Complessivamente –si conclude- da oltre 30 anni, sono impegnate in tali indagini le risorse di ben cinque Centri Operativi e del II Reparto”.
Un intero reparto dunque, quello talmente importante da essere segnalato come fondamentale per “l’evasione delle numerosissime deleghe assegnate dalle Procure distrettuali”. E “ben”, come dicono gli autori della relazione, cinque Centri Operativi. Tutti impegnati con grande dispendio di mezzi, uomini e denaro contro un unico obiettivo. Naturalmente non c’è il nome di Berlusconi, e neppure quello di Dell’Utri, nella relazione ufficiale. Tanto ci pensano i giornalisti amici, ad allungare il brodo, nel corso degli anni. Con decine di articoli, che spaziano dal Fatto a Domani. Ma nel documento della Dia non sono neppure menzionati i fallimenti precedenti. C’è da chiedersi se in Parlamento qualcuno le legge, queste relazioni, e se a qualcuno verrà mai in mente di interrogare il Ministro dell’Interno per visionare quanto meno i bilanci della Dia. Per non parlare del Csm, sempre pronto a “perdonare” i numerosi flop delle fallimentari inchieste di mafia.
Qualcuno ricorda ancora le indagini condotte dalla procura di Palermo su “M” e “MM”? E quelle di Caltanissetta su “Alfa” e “Beta”? E poi a Firenze l’inchiesta su “Autore 1” e “Autore 2”? Le sigle coprivano maldestramente sempre i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tutte archiviate, spesso su richiesta dello stesso pm. Carta straccia. E io pago! Dobbiamo ripeterlo più spesso, che questi magistrati e questi investigatori con le loro fantasie fanno pagare ai cittadini, anche in senso materiale, il prezzo dei loro errori, delle loro incapacità, dei loro furori politici.
Giusto per non ripetere la solita tiritera dei fratelli Graviano, sentite che cosa è successo ieri mattina a Reggio Calabria. Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha illustrato in un’aula di giustizia un’informativa della Dia (si, la solita Dia) su dichiarazioni di “pentiti” che chiamavano in causa esponenti politici e i loro presunti rapporti con uomini della ‘ndrangheta.
Barzellette, cui un importante uomo dello Stato in toga, pare dare credito: Craxi e Berlusconi a un summit in un agrumeto con la ‘ndrangheta. L’episodio risalirebbe ai giorni successivi all’assassinio di Aldo Moro, quindi nel 1978. I due sarebbero andati a questo vertice di mafia nella piana di Gioia Tauro, “presso l’agrumeto di tale Peppe Piccolo”. Lo racconta il “pentito” Girolamo Bruzzese, che sostiene di aver riconosciuto il personaggio politico e l’imprenditore brianzolo “per averli già visti in televisione”. Un po’ strano, non risulta che Berlusconi, impegnato solo nelle sue attività imprenditoriali, fosse spesso in televisione in quei giorni. Comunque il ragazzo fu subito, all’arrivo dei due, fatto allontanare dal padre su suggerimento nientemeno che di Peppe Piromalli, il boss dei boss.
Il racconto prosegue nel ricordo che, anni dopo, il padre di Bruzzese gli avrebbe spiegato che “Craxi e Berlusconi si sarebbero recati al summit perché Craxi voleva lanciare politicamente Berlusconi e quindi per concordare un appoggio anche da parte delle cosche interessate alla spartizione dei soldi che lo Stato avrebbe riversato nel mezzogiorno”. I due avrebbero alloggiato nel miglior albergo di Vibo Valentia, “penso in incognito”. Ricapitolando: il segretario di uno dei principali partiti italiani, che durante il rapimento Moro si era posto in particolare evidenza contro il “partito della fermezza” costituito da democristiani e comunisti, avrebbe avuto la bella pensata di andare a raccomandare a Piromalli un imprenditore brianzolo per farlo entrare in politica e garantirgli un po’ di voti mafiosi con l’impegno di investimenti per il sud. E avrebbe alloggiato nel miglior albergo di Vibo in incognito. Ma dottor Lombardo, lei crede davvero a queste scemenze?
Poi lo statista “pentito” Bruzzese spiega al colto e all’inclito che i corleonesi Riina e Provenzano si erano contrapposti alle famiglie mafiose palermitane dei Badalamenti-Inzerillo Bontate, perché “non accettavano più la politica di Craxi e Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli”. Ecco il cerchio che si chiude, mancavano solo Gelli e la P2. Se non c’è il fantasma di Aldo Moro, in quell’aula di Reggio Calabria però c’è quello di un ulteriore “pentito”, morto nel 2014, ma che aveva reso dichiarazioni spontanee alla polizia penitenziaria del carcere di Alessandria nel 2009.
Ci racconta il procuratore aggiunto, che questo Gerardo D’Urzo aveva parlato di un certo Valensise, che a quanto pare non è stato identificato, che con un altro esponente della ‘ndrangheta della jonica era andato a Roma e aveva avuto “un colloquio a Palazzo Grazioli con l’onorevole Silvio Berlusconi e questi gli disse al Valensise che quello che aveva promesso lo manteneva e dovevano stare tranquilli”. Eccetera. Così sono fatte le inchieste di mafia. Interverrà mai qualcuno in Parlamento o al governo o al Csm per mettere fine a queste vergogne? Intanto gli armamenti pesanti della Dia continuano a indagare con questi metodi, nell’attesa che la procura di Firenze, quella che indaga per strage Berlusconi e Dell’Utri, decida, entro dicembre, se chiedere un processo o procedere all’archiviazione. Sarebbe il quarto flop, dopo trent’anni.
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