Il delitto. Un personalismo inconcludente per cui prima si perde di brutto e il giorno dopo si sentenzia che “l’elettorato di Azione è incompatibile con quello di Renzi”. Come se la politica fosse un dispetto a qualcuno. Come se a trovare i punti di incontro debbano essere i soldati e non i generali. E il castigo. Una scena politica polarizzata come non mai, e senza poter dare la colpa al maggioritario perché l’elezione era proporzionale. Nel giugno 2024, il secolo e mezzo di conflitto fra massimalismo e riformismo sembra essersi concluso. Il primo si è riscoperto vincente, in una miscela informe di giustizialismo, statalismo e pulsioni anti-atlantiche. Il secondo si è dissolto. Ora può solo ripartire da zero.

La via d’uscita

Dostoevskij non fornisce solo la trama, ma anche la via di uscita: saper ripartire dagli errori. In soldoni, non fidarsi più solo del proprio specchio ma di una squadra di persone nuove e determinate. Cambiare l’idea stessa dell’offerta politica, che i leader dell’area centrale hanno finora inchiodato solo alle proprie figure e alla ristretta cerchia dei fedeli. Il recinto radicale, per cui solo con me si tutelano i diritti e l’Europa che sarà. Il culto della memoria del Palazzo Chigi che fu, per cui solo con me si modernizzano il lavoro e le istituzioni. La presunzione di diventare il CEO della politica italiana, per cui solo con me politica ed economia si possono prendere sul serio. Solo con me, anzi con me solo. Così, sono arrivate le freddissime risposte degli elettori, e quella che poteva essere un’area politica da 8-10 per cento e da un milione e mezzo di voti, è diventata la somma di due fallimenti.

Riformismo polveroso

Anche perché gli uni raccontavano la loro lista un po’ come un sogno un po’ come un cartello elettorale, l’altro neppure quello: la solitudine come esito inevitabile per il condottiero incompreso, come paradigma della politica se non della vita. Risultato: il riformismo visto non più come sfida, come lievito, come capacità di unire i diversi per rappresentare chi non ha voce. Ma riformismo inteso come parola polverosa, oscillante fra uno sterile auspicio da salotto e un espediente per la sopravvivenza della specie. È vero che il vizio di farsi percepire come élites non riguarda solo l’Italia, se si considerano i pesanti insuccessi di Macron e Scholz. Ma perlomeno lì hanno inciso il ruolo di governo e le ombre di guerra. Solo da noi le persone hanno fatto il capolavoro di sovrastare le idee, e a forza di specchiarsi nel lago di Narciso le hanno fatte naufragare. Riccardo Magi perlomeno è andato in Albania a mettere in gioco la sua faccia. La nomenclatura che è dietro di lui si è solo saputa dividere, sperando di festeggiare la sconfitta dell’altro.

Rimboccarsi le maniche

L’Italia ha una ricca storia di riformismo fiorente e decisivo del progresso politico. Quando un leader ha saputo operare con intelligenza al confine fra il centro e la sinistra si sono avute felicissime stagioni di evoluzione politica e sociale. Da Turati con Giolitti a Nenni e Saragat con Fanfani e Moro, fino al nuovo corso del Psi di Craxi che costruì il polo politico dei socialisti, dei laici e dei libertari. Oggi, per vincere il delitto dell’egoismo che porta all’autodistruzione e il castigo dell’irrilevanza, bisogna rimboccarsi le maniche e volare alto. Magari iniziando a vedere come ha fatto un moderato come Antonio Tajani a scaricare tutto il personalismo in un nome nel simbolo e poi presentarsi come un partito-comunità ancorato ad una famiglia europea. Ha superato la Lega e ora, giustamente, pensa a come includere i voti dei litigiosi galletti alla sua sinistra.

Sergio Talamo

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