Il filo logico dei pacifisti
Riarmo e deterrenza, c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole: la piazza, gli assenti e il confronto col passato

Potremmo commentare l’articolo La sinistra, l’Occidente e la pace di Claudio Velardi con i versi del poeta: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico”. Quando si torna a parlare di riarmo, di deterrenza dopo mille giorni di una guerra combattuta nel cuore dell’Europa, in un contesto geopolitico che ha visto alcune grandi potenze rimettere in discussione politiche ed alleanze storiche, è normale che tornino a farsi sentire i pacifisti in servizio permanente effettivo, come è avvenuto sabato 15 marzo, sia quelli che hanno aderito all’appello di Michele Serra e riempito Piazza del Popolo, divisi ma a loro modo uniti, sia gli altri che hanno scelto di farsi notare per la loro assenza perché ritenevano quella manifestazione troppo poco pacifista nei confronti del Grande Satana del riarmo.
Il filo logico dei pacifisti
Era molto più facile comprendere il filo logico dei pacifisti della seconda metà del secolo scorso che quello dei nuovi che hanno soppiantato le desinenze della nostra giovinezza. Agli inizi della Guerra fredda, un partigiano della pace era un libro aperto. Per lui l’URSS era la nazione guida, la patria del socialismo ed era normale che insieme ad una democrazia sostanziale, ad una giustizia sociale, ad un’effettiva eguaglianza e all’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il regime sovietico volesse anche la pace e che fosse costretto ad armarsi per difendersi dall’aggressività della Nato, braccio armato del capitalismo. Il rapporto con l’URSS non venne mai meno anche quando si svelò palesemente di che lacrime e di che sangue grondasse lo scettro del regime.
Ma anche quando il Pci osò prendere le distanze da Mosca non venne mai meno la solidarietà con l’Unione sovietica. Basterebbe rileggere il comunicato dell’Ufficio politico del Pci all’indomani dell’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968: dopo l’espressione di “un grave dissenso” il gruppo dirigente aveva avvertito la necessità di ribadire che: “è nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del PCI sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso”.
L’aiuto
Ma che cosa è rimasto nella Russia di Putin di quel pacchetto di (dis)valori che tennero unito il Pci al Pcus fino alla caduta del Muro di Berlino. Il 7 novembre non si celebra più l’anniversario della Rivoluzione che infiammò nel 1917 il Continente e gettò lo scompiglio in tutti i partiti di sinistra. Dalla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio si è passati ad un’economia mafio-capitalista in mano agli oligarchi che hanno accumulato – in barba ai principi dell’uguaglianza – ricchezze enormi. Inoltre, in un’epoca in cui vi sono forti preoccupazioni per l’affermazione in molti paesi europei (persino negli Usa) di un populismo colorato di neofascismo, si finge di dimenticare l’aiuto che il Cremlino fornisce a questi movimenti. L’URSS finanziava i partiti comunisti, la Russia le forze estremiste di destra che oggi ammirano Putin come i loro precursori ammiravano Hitler.
Tanto odio per l’Occidente
Come ha sottolineato Velardi è tanto forte e radicato l’odio per l’Occidente (ovvero per noi stessi) che i suoi nemici, compresi i tagliagole di Hamas, diventano amici. Ma c’è un’altra componente nel pacifismo nostrano (anche in gran parte di quello che si è radunato in Piazza del Popolo): le sue radici sono più recenti e risalgono agli anni ’80. Allora si erano dileguate tutte le illusioni sul socialismo storicamente realizzato; le ragioni dei pacifisti si erano ridotte alla dottrina del “meglio rossi che morti”, nella consapevolezza che nell’essere rossi non c’era posto per ordinamenti liberi e democratici né per società aperte o stati di diritto. Il profeta dei No arms di oggi è Alessandro Orsini che riconduce la politica internazionale ai rapporti di forza e che teorizza la condizione di felicità di un bambino sotto una dittatura, ma al riparo dalle bombe.
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