La vittoria di Donald Trump continua a essere al centro del dibattito internazionale. In tutto il mondo si discute su come si comporterà il tycoon, quali saranno le prossime mosse in politica estera, dall’Ucraina al Medio Oriente alla Cina. Ma quello che ora interessa agli Stati Uniti è anche cosa farà The Donald sul piano interno. Perché se tutti gli esperti concordano sul fatto che ormai non si possa più parlare di una parentesi nella storia democratica americana, il ritorno di Trump alla Casa Bianca può rappresentare un unicum per diverse ragioni. Richard Arenberg, docente della Brown University e uno dei massimi esperti dei meccanismi politici che governano Washington, ci spiega cosa è accaduto e può accedere Oltreoceano.

L’elezione di Trump è stata un fulmine a ciel sereno?
«Dal mio punto di vista, è stato un risultato abbastanza scioccante, perché Trump ha trionfato con una vittoria sorprendentemente forte. Un risultato ben al di sopra delle aspettative soprattutto per quanto riguarda il voto popolare. Ed è chiaro che la maggioranza al Senato e alla Camera darà una grossa mano al presidente».

In genere negli ultimi anni i presidenti, quando sono entrati in carica, hanno sempre avuto il controllo delle due Camere per i primi due anni del loro mandato. Cosa cambia ora?
«Sì, anche Trump lo aveva nel 2016. Ma penso che tutti quanti sappiano che c’è un certo livello di preoccupazione, tra gli addetti ai lavori e l’opposizione, riguardo certe tendenze autoritarie che ha manifestato durante la sua campagna elettorale. In uno dei suoi discorsi anche sostenuto di volere essere un dittatore il primo giorno di presidenza. E analizzando la situazione, c’è preoccupazione riguardo certe derive».

Esistono dei contrappesi che l’opposizione può mettere in campo?
«Uno dei più importanti sarà l’ostruzionismo al Senato, quello che in gergo si chiama ‘Filibuster’. I senatori hanno un diritto di parola indeterminato e storicamente questa possibilità al Senato è stata sfruttata dall’opposizione per frenare la maggioranza o per forzare un certo livello di cooperazione bipartisan».

I dem lo useranno?
«Ho scritto un libro su questo e ne sono un forte sostenitore. Ironicamente, l’ostruzionismo è stato criticato proprio dai democratici, che hanno voluto indebolirlo o eliminarlo, ma penso che ora sarà uno strumento importante per i democratici da sfruttare con il presidente Trump per negoziare su questioni di bilancio e altre materie particolarmente delicate».

Sull’altro lato della barricata, ritiene che i repubblicani invece saranno compatti?
«Se c’è un’opposizione nel Partito repubblicano, ora è completamente appiattita. Questo è ormai un Partito repubblicano Maga (Make American Great Again, n.d.r.) e penso che sia in un certo senso un partito molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati negli Stati Uniti. È quasi più un culto della personalità. La presa di Trump sul partito repubblicano è molto forte, è quasi completa a questo punto».

Cosa cambierà rispetto alla prima amministrazione firmata The Donald?
«Durante il suo primo mandato, anche perché inesperto rispetto alla cosa pubblica, Trump si è affidato a molte personalità all’interno della sua amministrazione che in quei quattro anni hanno svolto un ruolo molto importante nel frenare le tendenze più radicali. Ma penso che sia abbastanza chiaro che ciò non avverrà in questo secondo mandato, perché il tycoon selezionerà quasi esclusivamente persone che gli siano personalmente leali».

Cosa ha capito Trump dell’America?
«Sicuramente ha saputo rendere l’immigrazione e la sicurezza del confine meridionale, quello con il Messico, un tema fondamentale. Penso che sia stata una campagna molto oscura in certi frangenti, che Trump ha condotto ponendo molta enfasi sulla paura e sull’immigrazione irregolare. Lo ha reso l’argomento più importante e decisivo nella sua narrativa in tutti questi anni. Già prima della campagna per le presidenziali. Ha puntato tutto sulla chiusura delle frontiere e, proprio per questo, penso che assisteremo a una politica molto estrema. Specialmente sul rimpatrio di massa degli immigrati irregolari».

Sappiamo che gli elettori Usa sono mossi spesso dalle questioni economiche, lì Trump su cosa ha scommesso?
«Sull’inflazione. L’inflazione è stata fondamentale. È aumentata dopo la pandemia come in tutto il mondo, ma molti elettori americani hanno individuato il problema nell’attuale amministrazione. Kamala Harris non è riuscita mai davvero a separare sé stessa dalla presidenza di Joe Biden e penso che questo sia stato molto pesante a livello elettorale».

Cosa hanno sbagliato secondo lei i dem?
«I democratici hanno sottovalutato Trump e i suoi temi. In questo senso, il voto tra gli ispanici, specialmente i maschi ispanici, è una cartina di tornasole fondamentale. Nessun repubblicano, forse nemmeno George W. Bush, era riuscito a prendere così tanti voti tra i latinos. E il voto nei cosiddetti ‘Blue States’, quelli tradizionalmente democratici, è stato particolarmente indicativo. Perché persino in quegli Stati dove poi alla fine ha vinto Harris Trump non è peggiorato rispetto alle precedenti elezioni. Guardate cosa è successo a New York. È andato meglio anche dove era veramente difficile farlo. E ha saputo ritagliarsi uno spazio sempre più ampio anche nel voto delle donne».

Cosa si aspetta ora?
«Quello che dobbiamo sperare è una transizione democratica e pacifica. E penso che Biden e Harris faranno il possibile per evitare che ci siano problemi o disordini in questa fase».