“Ricordati che devi morire”, cara Tv lo sapevamo già

Da un passato, di cui restano segni profondi nella memoria del corpo e pochi ricordi, c’è tuttavia un’ immagine che mi ha seguita nel tempo, forse perché cercava una spiegazione che non ho mai avuto voglia di darle. Il titolo credo fosse “Le età della vita”, il disegno una linea curva su cui una figura umana saliva e scendeva, via via in posizione sempre più eretta e poi sempre più inclinata. Mi colpiva la somiglianza fra la partenza e il traguardo, l’evidente accostamento tra l’infanzia e la vecchiaia. Se mi è tornata in mente in questi giorni non è certo un caso: c’è l’allarme da coronavirus, ci sono ordinanze sempre più restrittive della nostra mobilità sociale, e ci sono notiziari che a ritmo serrato contano il numero dei contagi, dei ricoveri, delle guarigioni e delle morti, associandoli all’età delle persone colpite e sottolineando con insistenza la contenuta mortalità del virus che colpirebbe quasi esclusivamente gli “anziani” con malattie pregresse.

Si tratta certo di dati oggettivi, ma accompagnati da una lettura e una scelta comunicativa che non potevano non sollevare perplessità, domande, irritazione. Collocate nella categoria dei “fragili” o “vulnerabili”, un modo all’apparenza gentile per rivolgersi agli ultrasettantenni, le persone che purtroppo ne fanno parte dovrebbero ringraziare per tanta inaspettata attenzione nei loro confronti, o chiedersi che senso abbia ricordare il “memento mori”a chi si presume lo abbia già dolorosamente nei suoi pensieri? Non c’è voluto molto a capire che quella insistente precisazione era volta a rassicurare i più giovani, e deve essere andata a buono o cattivo fine se, fino a pochi giorni fa, la maggior parte della popolazione , a minor rischio, ha continuato a mantenere comportamenti abituali.

Non ho potuto evitare un ragionamento spontaneo: i vecchi sono quelli che vivono già in una sorta di quarantena, negli interni delle case, negli ospedali, nelle case di riposo, mentre i giovani, figli, nipoti, si accalcano in massa nei supermercati, rischiando di portare a casa cibo e contagio. A far crescere inquietudini e malumori è arrivato poi il documento della Società italiana degli anestesisti in cui si dice che, peggiorando la situazione, sarebbe stato necessario “porre un limite all’ingresso in terapia intensiva”, e cioè, in altre parole, riservare risorse a chi ha più probabilità di sopravvivenza.

Verrebbe da dire “una selezione naturale”, se al posto della natura, come pensava Darwin, non ci fosse in questo caso una sanità pesantemente decurtata per quanto riguarda finanziamenti, personale medico e infermieristico.
Eppure non sono stati pochi ad avvallare la bontà di una scelta che va contro il diritto di tutti a essere curati, senza quel minimo di riflessione critica che dovrebbe farci dire che non bisogna arrivare a questo.

In tutte le emergenze di cui veniamo informati quotidianamente in un mondo globalizzato – dalle guerre alle migrazioni, sfollamenti, carestie, ecc.- l’attenzione va generalmente “alle donne e ai bambini”, anche se si può pensare che siano i più forti a sopportarle. La vita da salvaguardare, nelle situazioni estreme, è quella dei corpi che la generano e di quelli che sono all’inizio del loro cammino. Eppure sappiamo quanto contino le persone più avanti negli anni, quando si tratta di sostituire nella cura dei bambini e della casa servizi sociali carenti o inesistenti.

Se non bastasse questo, in un lungo percorso di vita si può dire che ogni individuo diventa il testimone prezioso di una storia, l’archivio di un vissuto sociale, oltre che personale, che i libri di storia non raccontano. Perché allora sembra così “normale” ridurre chi ha un’età avanzata a corpo “fragile” o addirittura a numero di una statistica?
Scrive Adriano Sofri in una delle sue “conversazioni” online: «Vorrei salutare le vecchie donne e i vecchi uomini a cui il virus ha già dato il colpo di grazia e quelli che lo aspettano. Quelli che gli eufemismi chiamano “anziani”, e però l’eufemismo opposto, urgente a rassicurare gli altri, chiama “malati già compromessi”.

“Sarebbero morti anche per una normale influenza”, ha detto una brava professionista, dimenticando la differenza tra una statistica e una vita (…) Anche se si siano disabituati a pensare che si muore di vecchiaia, sanno comunque che di vecchiaia si vive, e che a volte un impulso può scuoterli come un ricordo antico, come una primavera di febbraio che sente la gelata, ma mette fuori lo stesso il suo fiore».

Le emergenze agiscono come una specie di catalizzatore di rapporti, convinzioni, pregiudizi, immaginari, visioni del mondo acquisite spesso inconsapevolmente e che una scossa inaspettata porta all’improvviso davanti agli occhi. Si scoprono la fragilità, la dipendenza degli uni dagli altri, la perdita repentina di un privilegio, il capovolgimento di gerarchie, valori e poteri ritenuti immodificabili, la presenza inaggirabile del nostro essere corpo. Una condizione umana che accomuna tutti diventa, al medesimo tempo, il rilevatore più potente di differenze – di genere, razza, classe, specie – che ci sono sempre state e che hanno potuto sottrarsi alla coscienza solo perché date come “naturali”.

Ma, soprattutto, quello che viene allo scoperto è come la civiltà, che ha avuto per protagonista un sesso solo, abbia finalizzato le sue mete ad esorcizzare quel limite di tutti i viventi, che è la morte, inscritta fin dalla nascita nei loro corpi.