Ho incontrato Alfredo Biondi per l’ultima volta nel febbraio di tre anni fa, nella sua splendida casa di Genova: una casa piena di ricordi, di tracce di un percorso politico orientato esclusivamente al liberalismo. Mi ero recato lì armato di registratore, perché avevamo in mente di scrivere a quattro mani (o meglio: mie le mani, suoi i pensieri) un libretto sulla “giustizia penale liberale”. Un’astrazione impalpabile, un ossimoro forse: un concetto che poteva essere solo ragionato e non applicato. Eppure lui riusciva ad esercitare – nella professione forense, come nella politica – questa forma di liberalismo, lente attraverso la quale lui vedeva e interpretava il mondo. Dopo quella lunga chiacchierata, sui temi appunto della “giustizia liberale”, avevo steso una dozzina di cartelle fitte fitte: il resoconto di quel pomeriggio. Gliele avevo inviate (per posta ordinaria) subito dopo, con l’accordo che ci saremmo ritrovati il mese successivo; non siamo mai riusciti a terminare quel lavoro, per le sue via via più frequenti indisposizioni ed anche perché il mese successivo – inaspettatamente – ero già alle prese con i temibili orali del concorso in magistratura.

Quando poi gli comunicai (prima per telefono, poi scrivendogli una lettera) che avevo superato quel concorso, lui mi spedì un biglietto, scritto con il suo tratto ormai incerto su di una raffinata carta intestata, in cui si diceva convinto che avrei esercitato le mie funzioni ossequiando i principi del diritto penale liberale; né cambiò idea, quando gli dissi che avevo scelto di fare il pubblico ministero, anzi ribadì le sue certezze con maggior vigore. Non posso negare di essermi chiesto più d’una volta, se la fiducia che Alfredo Biondi riponeva sulla mia persona, e sull’esercizio di quelle particolari funzioni inquirenti, fosse ben riposta. Non l’ho più visto, e lo sentivo sempre meno, con crescente rimpianto per i pranzi e le cene in cui raccontava, senza alcun ordine, quarant’anni di politica e giustizia, col suo fare eccentrico e autorevole al tempo stesso, con la sua galanteria, la sua coerenza nelle idee liberali coltivate fin da giovanissimo, e fino alla fine. Credo di aver imparato molto da lui. Per un po’ ho continuato a cercarlo, chissà che non fossimo riusciti a chiudere il nostro (recte: “suo”) libretto: ma il suo è stato un graduale congedo da un mondo in cui non si riconosceva più.

E rileggendo le cartelle di un progetto editoriale abortito sul nascere, mi rendo conto, oggi, che il suo attaccamento all’ideologia liberale, declinata nella politica e nella giustizia, l’attaccamento ai principi di libertà di cui mi parlava sempre, ed in quel pomeriggio a Genova, era in realtà il distacco di chi non voleva finire nel calderone dell’ideologia qualunquista, e del populismo a qualunque costo. Ricordare Alfredo Biondi vuol dire dare corso alla nostalgia del tempo in cui la politica, pur con tutti i difetti dei fenomeni umani, si occupava delle complessità sociali, e cercava di inquadrare i problemi in una cornice teorica, in cui venivano affermati e trattati principi di natura ideologica; di ideologie che non hanno più maestri e di cui oggi, sfortunatamente, abbiamo perso le tracce.

Quel libretto mai pubblicato voleva dare ossigeno – nel chiuso della sua casa vicino al mare ligure – al suo modo di pensare, anacronistico forse, e sarebbe cominciato così, perché così egli aveva introdotto il tema: «Con giustizia liberale non intendiamo soltanto una concezione progressista e garantista del diritto, ma qualcosa di più ampio. È vero che, nel pensiero comune, la parola garantismo designa la dottrina liberale del diritto penale, ma è vero anche che ben poche sono state le elaborazioni a tutto tondo della giustizia liberale. D’altronde, il liberalismo è sempre stato connesso, principalmente, ai fenomeni dell’economia, mentre ai fenomeni del diritto, e del diritto penale in particolare, ci si riferisce evocando indistintamente concetti come quelli di garantismo, illuminismo o, appunto, liberalismo. Il discorso che ci apprestiamo a svolgere tenterà dunque di chiarire quale può – o dovrebbe – essere lo spirito del giurista liberale, e i principi che lo muovono».

È davvero anacronistico pensare, oggi, a quali debbano essere i principi su cui deve improntarsi lo spirito del giurista liberale? E, in definitiva, ad un modo diverso di esercitare la giustizia? Forse, Alfredo Biondi, nonostante il suo ritiro dalle scene, lontano dai riflettori, continuava ad essere più attuale di quanto si immaginasse; e, per la granitica coerenza che ha sempre contraddistinto il suo pensiero, continuerà ad esserlo.