Il Rapporto annuale (2024) dell’ISTAT offre dati e informazioni con riguardo all’andamento delle retribuzioni contrattuali orarie relative al triennio 2021-2023 e al divario economico tra i territori che consentono di sviluppare alcune considerazioni sull’attuale struttura della contrattazione collettiva. L’erosione del potere d’acquisto delle retribuzioni ‘cresciute a un ritmo decisamente inferiore a quello osservato per i prezzi’ e la circostanza che ad una quota significativa di lavoratori è applicato – in regime di ultrattività – un contratto collettivo nazionale di lavoro scaduto hanno determinato significativo arretramento in termini reali delle retribuzioni. Inoltre, non essendo in genere previsti dalla disciplina contrattuale meccanismi di adeguamento automatico dei livelli retributivi, grava sulle dinamiche salariali, oltre al mancato rinnovo, la durata (triennale) dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Fermo restando quanto sopra, è evidente che le strategie e le politiche di sviluppo di un’impresa, che sempre appartiene ad un territorio ed è inserita in un tessuto socio-economico caratterizzato da proprie peculiarità, sono delineate considerando fattori endogeni all’organizzazione così come fattori esogeni. Per quanto concerne le politiche retributive – e, più in generale, organizzative – è inevitabile che un forte condizionamento sia esercitato dall’andamento dei prezzi al consumo, affatto uniforme sul territorio nazionale. Al riguardo, si consideri come la direttiva (UE) 2022/2041 del 19 ottobre 2022, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 29 novembre 2024, preveda, per quanto qui d’interesse, che la legislazione nazionale individui criteri volti ad assicurare l’adeguatezza dei salari, considerando anche il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita (art. 5, par. 2, lett. d). Per garantire effettività a tale principio non potrà essere ignorato il pronunciato divario economico tra i territori e gli effetti deteriori che tali gravi squilibri producono non solo sul piano economico ed organizzativo, ma anche in termini di coesione sociale.

Inoltre, i salari adeguati formeranno oggetto dell’obbligo di informativa (S1-10) secondo i principi di rendicontazione di sostenibilità stabiliti dall’art. 29-ter della direttiva 2013/34/UE del 26 giugno 2013, di imminente recepimento, e dal regolamento delegato (UE) 2023/2772 del 31 luglio 2023 (obbligo di informativa S1-10). Dunque, anche in un’ottica di sostenibilità, una politica che miri ad un riequilibrio delle dinamiche salariali e concorrenziali anche in considerazione delle fragilità territoriali non potrà continuare a trascurare la funzione che in tale ambito è ragionevole sia attribuita (rectius: restituita) alla contrattazione collettiva di lavoro di livello territoriale. Senza voler comprimere l’essenziale funzione svolta con riferimento alle retribuzioni dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro, è evidente come la sola contrattazione collettiva di lavoro di livello territoriale possa apportare gli opportuni correttivi correlati al costo della vita, recependo al contempo gli elementi evolutivi e trasformativi che caratterizzano il tessuto produttivo.

Infatti, non è sensato che alle politiche retributive e di conciliazione delineate in sede di contrattazione collettiva di lavoro di livello territoriale, e che hanno un immediato e rilevante impatto in termini di competitività e progresso economico, si continui ad attribuire una funzione meramente accessoria; solo la genuina valorizzazione dei caratteri territoriali dell’economia, che, come noto, è sostenuta da una rete di PMI, può consentire di operare quegli adattamenti che colmino le disparità territoriali, pur preservandone e promuovendone i caratteri distintivi. È dunque necessario ridefinire il funzionamento della struttura della contrattazione collettiva, rimediando all’effetto polarizzante prodotto dalla contrattazione aziendale e restituendo alla contrattazione collettiva territoriale una funzione di bilanciamento delle politiche retributive alla luce di indicatori territoriali e regionali, anche sperimentali. Se da una parte la contrattazione collettiva aziendale può realizzare efficacemente politiche ridistributive del valore economico generato (produttività) dall’impresa, dall’altra essa è incapace di valorizzare l’economia del territorio e di accompagnare le trasformazioni socio-economiche, non solo sul piano territoriale, ma anche settoriale ed intersettoriale; trattasi di temi che è possibile governare solo attraverso la contrattazione nazionale e territoriale di lavoro e con la partecipazione al dialogo sociale di una rappresentanza qualificata e opportunamente preparata.

Promuovere e avvantaggiare la contrattazione aziendale e al contempo relegare la contrattazione collettiva di livello territoriale ad una funzione ancillare è dunque una scelta incoerente e persino dannosa per lo sviluppo di un’economia che la legislazione comunitaria vorrebbe ‘sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale’ (considerandum 1 della direttiva (UE) 2022/2041 del 19 ottobre 2022). Resta bene inteso che la contrattazione collettiva aziendale continuerà a svolgere una funzione essenziale ma orientata alla lettura e alla interpretazione dei modelli organizzativi anche in un’ottica di sostenibilità, intervenendo sugli istituti contrattuali non solo di natura economica (come quella relativa all’aumento di produttività e redditività così come quella inerente a welfare e flex benefits), ma che assumono rilievo con riferimento, ad esempio, alle politiche di conciliazione, per l’equità (non solo di genere) e l’inclusione.

Con riguardo alla competitività di un sistema economico (nazionale e regionale), oltre alle tematiche connesse al dialogo sociale e alle relazioni industriali, è auspicabile sia considerata l’ipotesi di introdurre norme di moderazione del mercato anche in ambito lavoristico: proprio al fine di preservare delicati equilibri territoriali del mercato del lavoro ha senso osservare con interesse ai fenomeni distorsivi della concorrenza prodotti dalla diffusa applicazione di strumenti contrattuali (no-poach agreement e wage-fixing agreement) che appunto possono comprimere dinamiche concorrenziali e che le autorità statunitensi così come quelle comunitarie riconoscono essere intrinsecamente dannosi per il funzionamento della concorrenza.

Massimiliano Arlati, Francesco Rotondi

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