Lettera dal carcere a Sbarre di Zucchero
“Rieducazione e reinserimento in carcere esistono? Sì ma lo devi fare tu, lo Stato non te lo offre”

“La rieducazione ed il reinserimento esistono? Sì esistono e non sono una chimera. Però non aspettarti che questo lavoro, lungo e difficile lo faccia lo Stato. No, lo devi fare tu! E, sinceramente, non ci sono molte scuse se non ce la fai a raggiungere questo obiettivo. Anche se è una strada continuamente in salita, anche se puoi incappare in arresti di marcia, ce la puoi fare”. Scrive così un detenuto che durante la sua permanenza in carcere ce l’ha messa tutta per farcela, per sfruttare ogni possibilità, anche la più piccola per migliorarsi. Ce l’ha fatta, e ci è riuscito pensando alla sua dignità che gli è stata tolta quando è stato catapultato nell’inferno del carcere. Così come il diritto agli affetti. “Questa è la vera certezza della pena – scrive – diventi orfano di tutti i tuoi affetti. Non ci saranno più baci, più abbracci…nemmeno strette di mano. La mia prima stretta di mano dopo 14 anni di detenzione me l’ha concessa un Magistrato di Sorveglianza. ‘Non è mica un appestato Lei’, mi disse. Io non riuscì a guardarlo negli occhi e andai via piangendo”. Riportiamo di seguito la lettera di un detenuto a Sbarre di Zucchero.
Spesso quando si parla/scrive di detenzione il carcere viene paragonato all’inferno. Visto che solo Dante è entrato all’inferno e poi tornato è difficile capire il significato di questo paragone. Io, da detenuto, auguro a tutti che l’inferno non assomigli alla galera. Il carcere è un cratere, un buco nero, in cui si cade nel momento che vieni arrestato. Non è una discesa lenta. No, è immediata, violenta e molto dolorosa. Dicono che una volta toccato il fondo non si può far altro che risalire. Il carcere è molti livelli sotto al fondo e se ce la fai a risalire e tutto va bene, ti ritrovi al piano zero. Quando sono stato arrestato mi trovai a dover dividere una cella di 15m2 con tre ragazzi nordafricani (uno aveva 19 alias, mi ricordo ancora questo particolare)…Con me si sono comportati benissimo. Però per chi “prima” aveva una vita, una dignità, una famiglia, lavoro, una bella casa, un buon livello di vita, l’impatto è micidiale. Cerchi aiuto senza chiederlo. Speri che qualcuno capisca che hai bisogno di aiuto…ma ti avvicinano delle persone per conoscerti che fanno parte di un altro mondo, a te sconosciuto. Speri di farcela a mantenere la tua dignità, la tua personalità…però perdi tutto e ti ritrovi dopo poco tempo ad essere uno dei tanti nella confusione più totale.
Ti adegui, parli il “loro” linguaggio, tratti i “loro” argomenti… e dopo un altro po’ di tempo il “loro” diventa “noi”. Però il carcere è anche altro…non è solo sofferenza, non è solo “inferno”. Può essere molto altro, però ovviamente devi metterci del tuo, molto del tuo. Ci sono due modi per passare tutti quegli anni da scontare: ti butti sulla branda e aspetti il loro trascorrere spegnendoti nell’anima e nella mente, facendo così conoscenza con l’apatia, la depressione, gli psicofarmaci (sempre prescritti con troppa leggerezza) oppure cerchi di raccogliere quel poco che ti resta e iniziare in qualche modo a scalare quell’antro per avere una meta da raggiungere, con i pochissimi mezzi che vengono messi a disposizione. Se sei intelligente scegli la seconda opzione. Cerchi di mettere in mostra il meglio di te per ottenere un lavoro. Scusatemi il paragone … in ogni campo di concentramento c’era la scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi). Quella tenebrosa “battuta” che non poteva che essere di un pedagogo sadico ad un tratto diventa una beffa ancora attuale anche nella civilissima Italia.
Il lavoro nel carcere, una volta trovato, ti rende indipendente. Non pesi più sulle spalle della famiglia…ti rende “libero”. Ti aiuta a dimenticare accusa/difesa/giudizio. Ti lascia giusto il tempo per riflettere, la notte. E quelle riflessioni sono talmente pesanti, angoscianti che non vedi l’ora che arrivi il mattino per tornare al lavoro. Così, quando non lavori, non avendo altre opzioni, cerchi di trovare un altro modo per nobilitarti e pensi di rimetterti a studiare, se il posto dove sei ristretto te lo permette. Inizi a prendere i libri in mano. C’è chi ti ammira e chi ti deride. Ma forse il motivo più importante per il quale lo fai è che sei in contatto con persone civili che vengono ad insegnarti qualcosa. E’ un nuovo ed importante modo di relazionarti. Inizi a risentirti vivo, ti ricordi che fuori da queste mura c’è vita… hai uno scopo per andare avanti.
Ma ci sono anche i (pochi) colloqui con delle persone che facevano parte della tua vita di “prima”. Da quando sei stato arrestato non sei più stato compagno, non sei più amante, non hai più potuto prenderti cura di lei e della tua famiglia. Nel nome del popolo italiano sei stato spogliato anche di questi ruoli. Ecco, questa è la vera certezza della pena … diventi orfano di tutti i tuoi affetti. Non ci saranno più baci, più abbracci … nemmeno strette di mano. La mia prima stretta di mano dopo 14 anni di detenzione me l’ha concessa un Magistrato di Sorveglianza. “..non è mica un appestato Lei…” mi disse. Io non riuscì a guardarlo negli occhi e andai via piangendo. Questo è l’altro volto della detenzione … apprendi cosa vuol dire umanità, solidarietà. Perdi per strada il tuo egoismo, la tua arroganza, il tuo sentirti superiore a chi non ha raggiunto ciò che hai raggiunto tu. Ma capisci quali sono i veri valori … non la casa grande con piscina, non l’automobile, la moto, i vestiti griffati e le cene fuori, ma aiutare gli altri a superare i loro momenti bui. Il passaggio più difficile è che cerchi di dare speranza a chi non ne ha, anche se tra pochi anni questa persona uscirà e potrà rifarsi una vita mentre tu … l’ergastolano, non hai nemmeno più speranza per te.
Con gli anni hai raggiunto qualche obiettivo… hai ricevuto una medaglia dal Presidente della Repubblica … hai vinto un concorso nazionale di scrittura. Ti sei rifatto un nome … trovi rispetto non solo nelle altre persone detenute. Ma ti incontri con Magistrati di Sorveglianza, con dirigenti dell’UEPE, con rappresentanti delle Forze dell’ordine e con volontari e te ne accorgi che ti trattano con rispetto. In quel momento hai raggiunto un importantissimo obiettivo. Sei tornato ad essere uomo, con tanti limiti, però comunque con una certa dignità. Dignità che ti avevano tolto quando hai messo per la prima volta piede in carcere. Dignità che, entro certi limiti, ti sei riguadagnata, pur essendo un detenuto. E questo è il lato positivo … il percorso che hai fatto … il percorso del quale sei orgoglioso … il percorso che ti fa stare perfino più sereno di “prima”. Dunque la rieducazione ed il reinserimento esistono? Sì esistono e non sono una chimera. Però non aspettarti che questo lavoro, lungo e difficile lo faccia lo Stato. No, lo devi fare tu! E, sinceramente, non ci sono molte scuse se non ce la fai a raggiungere questo obiettivo. Anche se è una strada continuamente in salita, anche se puoi incappare in arresti di marcia, ce la puoi fare. Se ti comporti in modo dignitoso e ti impegni per dare uno svolto alla tua vita troverai sul tuo percorso da detenuto persone che si interessano ai tuoi progetti e sono pronti a sostenerti. Questo impegno, questo sforzo non necessariamente ti rendono una persona migliore ma ti rendono sicuramente una persona più forte che quando inciampa sa rialzarsi… sempre.
© Riproduzione riservata