C’è il fondato rischio che i cosiddetti cervelli in fuga non torneranno più. Adesso che la manovra è bollinata, il caos si moltiplica: i benefici fiscali che vengono meno per chi vuole rientrare dall’estero potrebbero avere addirittura una retroattività. Con il rischio per chi rientra di trovarsi perfino a debito con il fisco, in assenza di una fase transitoria fino al 2024. Un disastro nel disastro. Di cui vanno riepilogate le puntate precedenti.
L’Italia ha visto espatriare in dieci anni 1 milione e 300 mila “lavoratori qualificati” tra i 20 e i 39 anni. Il loro numero è andato aumentando esponenzialmente negli ultimi dieci anni e ha interessato soprattutto le capitali europee, gli Stati Uniti, il Canada, ma anche Hong Kong e il Giappone, Israele e l’Australia. Per ogni giovane europeo che si trasferisce a lavorare in Italia, ben 17 giovani italiani espatriano verso il resto dell’Ue o la Gran Bretagna. Tutti cercano un posto di lavoro a condizioni più vantaggiose e con prospettive di carriera che a molti continuano a sembrare, in Italia, un miraggio. C’è però un aspetto che vale la pena di sottolineare: la Fondazione Nord-Est ha paragonato questi numeri a quelli dell’emigrazione italiana degli anni Cinquanta, con la differenza che oltre il 30% di coloro che espatriano sono laureati. E una parte di loro ha anche il master o il dottorato di ricerca. Sono questi i “cervelli”: un esercito di 400-450 mila professionalità formate e specializzate che vanno ad arricchire di competenza ed energia altri sistemi-Paese. Da questo nasce il tentativo della politica di arginare il fenomeno, configurato con modalità diverse negli ultimi dieci anni. Le agevolazioni previste fino a ieri erano interessanti. Uno sconto fiscale, prima relativo ai soli ricercatori universitari e poi esteso a tutti coloro che volevano rimpatriate – i cosiddetti impatriati – ha attirato l’attenzione dei beneficiari. Come funzionava? Su mille euro di reddito prodotto da lavoro in Italia da lavoratori impatriati, solo 300 euro vanno a comporre la base di imponibile su cui sono calcolate le tasse. Uno sconto del 70% sull’Irpef che vale per cinque anni di periodo di imposta e che saliva al 90% nel caso degli impatriati che tornano al Sud. Il governo ha ora deciso di abbassare lo sconto al 50% introducendo un tetto di 600.000 euro di reddito annuo e chiedendo come prerequisito la permanenza all’estero dei beneficiari per almeno tre anni. E dire che il “regime degli impatriati” aveva iniziato a funzionare, tanto che nel solo 2021 sono stati ben 19.400 gli italiani tornati a casa. Ora, leggendo la legge di bilancio e la riforma specifica di cui prepara il terreno, la stretta si fa seria.
La legge prevede perfino l’equiparazione dei professionisti che vanno all’estero alle aziende che delocalizzano: in futuro i benefici saranno erogati a fronte dell’impegno a mantenere la residenza fiscale in Italia per almeno 5 anni, altrimenti i lavoratori dovranno restituire le agevolazioni, pagando gli interessi. E loro sono tanti, determinati, arrabbiati. Su WhatsApp, il Gruppo Rientro Italia conta più di duemila expat: donne, uomini, coppie, single, intere famiglie di avvocati, esperti di marketing, informatici, ma anche semplici impiegati e lavoratori del campo della ristorazione che in questi ultimi giorni stanno freneticamente condividendo preoccupazioni, rabbia e proposte per trovare una soluzione all’annuncio del governo Meloni di voler limitare fortemente il cosiddetto “regime degli impatriati”, una serie di agevolazioni fiscali per far tornare in Italia i nostri cervelli.
«Ce ne eravamo andati perché in Italia non c’è futuro, ora che volevamo tornare, scommettendo sul nostro Paese, questo ci tradisce ancora una volta», raccontano i partecipanti. Intanto, per non stare con le mani in mano, hanno lanciato una petizione online per chiedere che governo e parlamento provvedano a correggere una proposta di riforma «che danneggia il Paese e ne mina la credibilità» e «crea di fatto una nuova categoria di “esodati”: chi si è stabilito in Italia, dando dimissioni e accendendo mutui, o sta per farlo, rimarrebbe senza diritto agli incentivi, con un effetto retroattivo in violazione di elementari principi di certezza del diritto e ragionevolezza», spiegano. Secondo questi nostri connazionali ci sono molti altri punti critici: come «l’assenza di un regime transitorio, la rimozione degli incentivi legati alla natalità e al trasferimento al Sud, l’obbligo di cambiare datore di lavoro, una riduzione dell’importo dei benefici. Le modifiche proposte costringeranno molti a emigrare nuovamente o a non rientrare mai in Italia, perdendo così la possibilità di veder tornare un’ingente quantità di capitale umano su cui il Paese ha investito anni di formazione». La protesta in rete aumenta di giorno in giorno. Migliaia di giovani e di famiglie già formate devono rivedere i propri progetti, fare i conti con un lavoro che paga meno e con uno Stato che li tassa troppo. Traditi dalla politica che cambia le carte in tavola, molti impatriati tornano a valutare le offerte dall’estero. La petizione lanciata in rete da Italia Viva cresce ogni giorno di più. “Sul tema della fuga dei cervelli, come avevo promesso ai firmatari della petizione che abbiamo lanciato come Italia Viva. Adesso il nostro obiettivo è arrivare a quota 20.000 firme con la petizione e organizzare un incontro con il Ministro Giorgetti che si è detto disponibile”.