Le nuove norme dell'ordinamento e del Csm
Riforma Cartabia arriva in aula, i magistrati si ribellano: “La giustizia è cosa nostra”
Oggi è il grande giorno. La riforma Cartabia su Csm e Ordinamento giudiziario approda in aula, dopo un travagliato lavoro in Commissione Giustizia. Ma sono anche le stesse ore in cui i furbini del sindacato delle toghe, la Anm, ha fissato un incontro per decidere lo sciopero e concentrare su di sé l’attenzione dei media. Una dichiarazione di guerra. Un po’ come se, mentre la miss viene incoronata reginetta, una sua concorrente si spogliasse nuda davanti alle telecamere. La giornata è stata preceduta da commenti e interviste da parte dei magistrati più esposti e più esibizionisti, e anche da un vero grido di vittoria. Ci siamo ricompattati, finalmente di nuovo tutti insieme, hanno detto in coro Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, membri del Csm, e lo stesso Giuseppe Santalucia, il capo del sindacato.
Pare non esser successo niente: la riunione dell’hotel Champagne tra toghe ed esponenti politici, il trojan nel telefonino di Luca Palamara, lo scandalo di inchieste penali e le dimissioni a catena dal Csm. E poi punizioni di incolpevoli come il pg Marcello Viola cui fu bloccato l’accesso alla Procura di Roma (e qualcuno voleva impedirgli anche a quello di Milano). E infine il libro “scandaloso” di Sallusti e Palamara, che diventerà subito una sorta di best-seller con il dito puntato contro le toghe, a loro disdoro e vergogna. Così il 19 aprile rischia di diventare una data simbolica, quella in cui il premier Draghi indossa l’abito di Berlusconi e la ministra Cartabia quello del suo ex collega Castelli, ambedue presi di mira da una minaccia di sciopero delle toghe del tutto senza senso. Il consigliere Di Matteo non teme di avanzare il paragone tra i due momenti storici, spiegando che quel governo di centro-destra era più sincero, più esplicito nel proprio progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Questi qui invece, dice ancora Di Matteo, mi hanno deluso: “È incredibile che quel disegno si stia realizzando in un momento in cui al governo non c’è solo il centro-destra ma una coalizione che arriva fino al Pd e ai Cinquestelle, partiti e movimenti che avevano fatto del contrasto a questo tipo di riforme un loro cavallo di battaglia politica”.
Eccovi ben sistemati cari esponenti del Pd! Arruolati dal pubblico ministero preferito dal Fatto quotidiano (che lo intervista) nello splendido mondo del grillismo contro-riformatore e amico delle forche. In questo mondo vive prima di tutto il disprezzo per il Parlamento, quello strano organismo pieno di furfanti e parassiti che rubano lo stipendio e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, essere aperto come una scatola di tonno. In questo mondo non esiste la divisione dei poteri. E sulla giustizia non c’è libertà per l’esecutivo né per il legislativo, esiste solo la spavalderia di una Casta in toga priva del pudore dei propri limiti e dei propri errori. Il “Sistema” denunciato da Luca Palamara è ormai alle spalle. E in questo clima di guerra, anche le toghe hanno dichiarato guerra al mondo della Politica. Ai partiti, al governo, al Parlamento. Hanno l’atomica -le manette- e la sanno usare. Paiono andare ai matti all’idea che il mondo politico stia “osando” presentare norme, sia pur piccole piccole, che non abbiano ricevuto il loro imprimatur, il loro bollino blu. E, se la riforma Cartabia andrà in porto, se questo pur debolissimo Parlamento troverà in sé la forza, tra mille compromessi e contentini a ogni partito o frazione di esso, di guardare a un futuro in cui non saranno più i Di Matteo e i Santalucia a comandare nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, allora diremo anche noi “viva la riforma Cartabia”. Anche se riteniamo che le varie norme e deleghe in essa contenute non cambieranno molto. Perché liberarsi, finalmente e dopo trent’anni, dal giogo dei pm è forse oggi la cosa più importante.
Del resto dovrebbe essere sufficiente esaminare punto per punto il modo di ragionare dei capofila della protesta che sfocerà quasi sicuramente nello sciopero delle toghe. Premettiamo che Nino Di Matteo è contrario all’astensione dal lavoro, ma solo perché è uno molto attento alla comunicazione e teme che “lo sciopero sarebbe scambiato per un tentativo per tutelare interessi di casta”. Invece? Risulta per caso a qualcuno, o qualcuno si accorto del fatto che dopo lo scandalo denunciato nel “Sistema” sia stata avviata all’interno della magistratura, del loro sindacato dello stesso Csm una qualche forma di discussione, di autocritica, di progettualità per un futuro diverso? Non risulta. Viene in mente quel detto siciliano che suona più o meno così: calati giunco, che passa la piena. Lasciamo perdere la legge elettorale del Csm, come se bastasse una modifica dei sistemi di votazione per riformare la magistratura. Per lo meno la proposta di sorteggio, che in tempi normali sembrerebbe assurda, avrebbe potuto evitare il trionfo delle correnti e i loro comportamenti a volte peggiori di quelli dei peggiori politici. E magari avremmo avuto nel Csm invece dei vari Davigo e Ardita, qualche signor Rossi o Bianchi, sconosciuti.
Non male, eh? Ma non possiamo lasciar perdere la scandalosa cultura politica che appartiene a certe toghe. Sentiamo ancora Di Matteo, che è uno importante, uno che dovrebbe essere d’esempio per i giovani magistrati che si affacciano alla carriera. Le norme della riforma Cartabia secondo lui manifestano “una voglia di vendetta nei confronti di quella parte della magistratura che è stata capace di portare a processo la politica, la grande finanza, le grandi deviazioni dello Stato”. C’è da sentirsi agghiacciati. Dunque il compito del pubblico ministero non è quello di cercare i responsabili dei reati, ma quello di dare l’assalto al mondo della politica e della finanza? Un dubbio: è quello che il dottor Di Matteo ha tentato nel fallimentare e costoso processo “Trattativa”? Ma lasciamogli rispondere chi ne sa più di noi, il professor Sabino Cassese, intervistato dal Foglio.
“In quella frase ci sono tre errori”, dice Cassese. “Quello di ritenere che una parte della società, la magistratura, possa portare a processo un’altra parte della società, la politica. Quello di pensare che un governo presieduto da Draghi, con Cartabia ministra della giustizia, possa esser animato da un desiderio di ‘vendetta’. Quello di ritenere che un magistrato possa esprimersi in tal modo sugli organi costituzionali della Repubblica”. Il punto è che non solo si permettono. Ma si consentono questo tono e questo linguaggio perché sono abituati a tenere il mondo istituzionale sotto il proprio giogo. Per dire No persino a una riforma piccola piccola che osa affacciarsi all’orizzonte, con una timida separazione delle funzioni (neppure totale), con un assaggio di valutazioni di qualità (e magari produttività) del lavoro di chi è chiamato a giudicare gli altri. Se si chiede di non fare di ogni processo qualcosa di simile a quello della “Trattativa”, è proprio per pensare a una giustizia che sia il contrario di quel che intendono i magistrati alla Di Matteo. Che cosa vuol dire infatti, quando afferma che con la riforma, allora il magistrato “si limiterà a esercitare l’azione penale nei casi di assoluta evidenza della prova”? Non dovrebbe essere sempre così? O facciamo a ripetizione il circo Barnum del processo “Trattativa”? Oggi è il 19 aprile, data simbolica per la giustizia.
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