Forse è la volta buona. Quel che non è riuscito a Silvio Berlusconi, una riforma della giustizia che portasse l’Italia a essere uno Stato laico e di diritto, potrebbe riuscire a un Parlamento con maggioranza di centrodestra e a un partito (Forza Italia) che, nel nome del proprio fondatore e l’orecchio sensibile all’ascolto di quel che dicono Marina e Piersilvio, sta ritrovando orgoglio e una vera fisionomia riformistica.

Non sono più i tempi del “decreto Biondi” sulla custodia cautelare, e neanche quelli dell’avvocato Ghedini o del ministro Alfano e quelle leggi sacrosante ma poi bocciate dalla Corte Costituzionale, come quella ispirata da Gaetano Pecorella sulle impugnazioni dei pm contro le assoluzioni. E forse il sindacato dei magistrati non è più così forte, visto che l’abolizione dell’abuso d’ufficio è ormai legge. Inoltre la magistratura genovese, che ha dato pessima prova di sé nella vicenda dell’ex governatore della Liguria Giovanni Toti, non ha la popolarità del pool di Borrelli e Di Pietro. E se è vero – come si legge – che esiste già un sondaggio in Liguria che vedrebbe prevalere ancora il centrodestra a dispetto delle indagini giudiziarie e della triste manifestazione della sinistra contro un detenuto, allora vuol dire proprio che il momento è opportuno. Se però esiste una vera volontà riformatrice, non solo in Forza Italia.

Certo, il decreto carceri appena diventato legge con la firma del presidente della Repubblica ha lasciato l’amaro in bocca a chi sperava in soluzioni immediate almeno per tamponare la strage di suicidi tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria dei primi otto mesi dell’anno. È sicuramente importante quello che continua a ripetere il sottosegretario Andrea Delmastro sugli investimenti in edilizia penitenziaria e il potenziamento degli organici sia degli addetti alla sicurezza che di educatori e psicologi. Ma non esiste un problema carcere che sia separato dalla questione giustizia. E questa significa prima di tutto mettere il naso, gli occhi e soprattutto le mani nell’anomalia italiana: quella del carcere prima del processo.

Possiamo chiamarla custodia cautelare, ma sempre privazione della libertà è. Cioè prigionia, del corpo e della mente, di persone innocenti secondo la Costituzione. Il ministro Carlo Nordio lo sa bene. Neppure lui pare in grado di affrontare in modo incisivo lo straordinario affollamento delle nostre carceri. E se ce lo permette, non dica che lo si risolve consentendo ai giudici di trasferire i tossicodipendenti in strutture destinate, soprattutto perché questa possibilità esiste già, oppure che il governo conta di spedire nei paesi d’origine i detenuti stranieri. Come, quando, con quali accordi tra Stati, non si sa. Gli diamo maggior credito quando giura di intendere intervenire sulla custodia cautelare. Perché il marcio sta lì, e le manette sono una forma di ricatto costante sui cittadini, almeno fin dai tempi in cui Antonio Di Pietro agitava i polsi per aria a minacciarle a imprenditori impauriti, sgranocchiando Mon Cheri.

Nonostante qualche riforma sia stata fatta – almeno a partire dal 1996 e dopo il forzoso abbandono dello sfortunato “decreto Biondi” – c’è sempre quel punto critico dell’articolo 274 del codice di procedura penale, ed è quello della reiterazione del reato, una norma che puzza di incostituzionalità. Nordio non può dimenticare di esser stato presidente di quel Comitato che propose due anni fa sei referendum sulla giustizia, uno dei quali riguardava proprio quel punto. E non può dimenticarlo la Lega di Salvini, che quella consultazione popolare aveva promosso insieme al partito radicale. Giorgia Meloni era stata contraria, e con lei il suo partito. Ma ci fu un tempo in cui la destra italiana si chiamava Alleanza Nazionale, e in quel partito voluto da Gianfranco Fini che sciolse il Msi c’era un gruppo di avvocati che era entrato in Parlamento con un forte spirito riformatore. Anche oggi qualche spiraglio si vede in Fratelli d’Italia, nell’intervista rilasciata al Dubbio dal senatore Sergio Rastrelli. Il quale cita il grande Francesco Ferrara e il suo scritto “Immoralità del carcere preventivo” che definiva la custodia cautelare come “una necessaria ingiustizia”. Tornano alla memoria ex parlamentari di An come Fragalà e Simeoni, che purtroppo non ci sono più: il primo un vero riformatore ammazzato dalla mafia; l’altro – insieme a Luigi Saraceni, un ex magistrato della sinistra garantista che ora non esiste – era stato autore di un’importante legge del 1998 sulle misure alternative al carcere.

Ci sono voluti trent’anni perché si risentisse anche nella destra storica qualche voce critica sulla questione identitaria della sicurezza. Nel frattempo è arrivata la Legge Severino. Anche sulla abrogazione di questa norma, prevista dal referendum del 2022, Giorgia Meloni aveva manifestato il proprio dissenso. Ma la discussione dei mesi scorsi che è sfociata nell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ha portato alla luce uno schieramento inedito di amministratori locali di tutti i partiti, vittime di incriminazioni che ne avevano distrutto tanti, prima del proscioglimento. La ciliegina sulla torta, che tiene insieme tutti quanti questi problemi, dalla custodia cautelare motivata con il pericolo di reiterazione del reato all’abuso d’ufficio fino alla legge Severino, è stata la vicenda di Giovanni Toti. A partire dalla quale Giorgia Meloni ha l’occasione di mostrarsi migliore e più riformatrice della sinistra di Elly Schlein e del circo Barnum messo in piazza per infierire su un prigioniero.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.