L’elemento che domina il dibattito sulla crisi della giustizia e sulle possibili soluzioni, alcune inutili se non addirittura dannose, è certamente la grande confusione. Conviene sgombrare subito il campo dalle numerose proposte di legge volte a istituire una commissione parlamentare di inchiesta. Attraverso la sciagurata vicenda Palamara e poi le altrettanto inquietanti rivelazioni dell’avvocato Amara già conosciamo quanto profondo e diffuso sia il degrado di un sistema che di fatto ha messo nelle mani delle correnti tutto ciò che riguarda lo stato giuridico dei magistrati: assegnazione della sede, trasferimenti, promozioni, incarichi direttivi, applicazioni presso istituzioni e uffici esterni alla magistratura.

Una commissione parlamentare di inchiesta non farebbe che confermare lo scempio che è stato fatto dei principi di legalità su cui avrebbero dovuto basarsi i provvedimenti sullo stato giuridico dei magistrati, ma certo non sarebbe in grado, proprio per le finalità prevalentemente conoscitive e per i diversi obiettivi politici dei singoli parlamentari, di proporre soluzioni condivise e risolutive. Il problema centrale dunque non è conoscere: il vergognoso sistema di raccomandazioni e di scambio di favori a cui hanno dovuto sottomettersi molti, troppi magistrati per perseguire le loro legittime aspettative di “carriera” è ormai ampiamente noto. Peggio ancora, poi, quando per ottenere una posizione di favore illegittima, il magistrato ha fatto mercimonio della propria indipendenza, perché qualcuno, in perfetto stile mafioso, sarebbe poi venuto a chiedergli di saldare il conto. Dei meccanismi su cui si reggeva questo quadro agghiacciante sappiamo più che a sufficienza, ora è il momento di cercare le vie per venire fuori da questo pantano in cui ha sguazzato una parte, speriamo non troppo consistente, della magistratura.

Il rimedio va senza dubbio ricercato nel Consiglio superiore della magistratura (Csm), rimasto anch’esso travolto dallo scandalo (ben sei componenti togati hanno frettolosamente dato le dimissioni), al punto che vi è da domandarsi se possa ancora essere qualificato come organo di “autogoverno” della magistratura, o non si debba piuttosto pensare, per la stessa tutela dei giudici non immischiati nel gioco delle correnti, a un organo di “governo”. Della riforma del Csm si sta comunque occupando un gruppo di studio tempestivamente nominato dalla ministra della giustizia Marta Cartabia. Tenuto conto dei vincoli posti dal dettato costituzionale, che prevede – come noto – che due terzi dei suoi componenti (i c.d. togati) siano eletti dai magistrati ordinari e un terzo (i c.d. laici) dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati dopo 15 anni di servizio, la riforma del Csm dovrebbe realizzarsi in due tempi: subito le modifiche più urgenti che non interferiscono con i principi costituzionali, in un secondo momento le modifiche che coinvolgono anche la Costituzione.

Nel primo tempo i magistrati rimarranno quindi in schiacciante maggioranza e il principale rimedio potrebbe essere un sistema elettorale idoneo a contrastare il peso delle correnti all’interno della maggioranza togata del Consiglio. Si potrebbe pensare – a qualcosa di analogo ha accennato Giovanni Maria Flick – a circoscrizioni elettorali non troppo estese, coincidenti con i distretti di corte di appello, nelle quali i magistrati vengono chiamati a votare colleghi che si sono autocandidati a titolo personale, senza riferimento alle correnti; meglio ancora se in una sorta di primarie gli elettori della circoscrizione indicano una serie di candidati che per conoscenza personale e diretta riscuotono la loro fiducia, tra i quali viene poi eletto il consigliere del Csm.

Nel secondo tempo della riforma si dovrebbe diminuire il numero dei componenti togati del Csm. I Costituenti avevano l’obiettivo primario di garantire l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo, quanto ai giudici già intaccata nel corso dello Stato liberale e poi del tutto vanificata nel periodo fascista, mentre il pubblico ministero era da sempre posto alle dipendenze del ministro della giustizia. L’attuale degenerazione causata dallo strapotere delle correnti e dall’esasperata autotutela corporativa dei magistrati, soprattutto del pubblico ministero, suggerisce di diminuire a un terzo o alla metà il numero dei togati.

Quanto ai laici, dovrebbe esser eliminata la componente politica eletta da Parlamento, al fine di evitare il riproporsi di pericolosi cortocircuiti tra giudici e politici. I laici, scelti come ora tra docenti universitari e avvocati, potrebbero essere eletti dai presidi delle facoltà (ora dipartimenti) di giurisprudenza e dai consigli forensi, nonché dalla Conferenza dei rettori delle università italiane. Risulterebbero così inseriti nel corpo elettorale anche esponenti di rilievo della società civile, non necessariamente provenienti dal ceto dei giuristi. Infine, il vice-presidente del Csm, ora eletto dal Consiglio tra i componenti laici, dovrebbe essere designato, sulla base di un rapporto di fiducia, dal Presidente della Repubblica, che è anche Presidente del Csm.