Fra i tanti annunci si segnala anche quello – ennesimo – della riforma della giustizia, questa volta sotto il profilo di quella ordinamentale. Sono vari gli aspetti considerati nella proposta di legge delega che doveva già approdare al Consiglio dei Ministri questa settimana e di cui si stanno perdendo le tracce. Si tratta, peraltro, della riproposizione – riveduta e corretta – di quanto già elaborato sotto il precedente Governo, ora stralciato per rispondere all’emergenza del Palamara 2, dopo che sono state dimenticate le premesse legate all’urgenza di dare una risposta al Palamara 1. Si sprecano i buoni propositi, le promesse di autoriforma sia della magistratura, sia della politica. Si notano già i primi distinguo. Il processo sarà lungo e accidentato nella speranza dei protagonisti e dei comprimari della questione “giustizia” che altre emergenze possono obliterare quanto è emerso e con esso la necessità di una riforma oggi ritenuta non rinviabile. Non sono poche, anche sui profili ispirati da lodevoli intenti, le riserve che il disegno di legge presenta.
Bisognerà vedere, nel momento elettorale dell’autunno per il parlamento dell’Associazione magistrati, come si posizioneranno – in termini di rapporti di forza – le “correnti” e i vari gruppi. Sotto quest’ultimo profilo, non può non segnalarsi che al tradizionale aggregarsi culturale, le correnti – sul modello di alcuni partiti – si stanno strutturando attorno a leadership individuali, con conseguenze non secondarie in punto di cristallizzazione dell’aggregazione, prima caratterizzata – pur in presenza di persone che avevano rilievo nelle singole correnti – da strutture maggiormente dinamiche. Il risultato elettorale inevitabilmente indicherà chi sarà l’interlocutore della riforma con il Governo e il Parlamento, ma soprattutto quanto peseranno le varie aggregazioni nel riformato sistema elettorale per il Consiglio Superiore della Magistratura. Il dato assicurerà rilievo rispetto alla capacità delle correnti di gestire, sia il primo, ma soprattutto il secondo turno elettorale con possibilità di coordinare gli elettorati.
Un profilo di criticità della riforma è costituito dal mantenimento dentro il Consiglio della sezione disciplinare, seppur temperato dalla partecipazione esclusiva dei consiglieri e la divisione in due sezioni. Appare difficile che i componenti si sottraggano alle logiche del Consiglio alle quali la composizione di due togati e di un laico non sarà in grado di sottrarsi, anche se è vero che rispetto all’attuale situazione cambia non poco la possibilità di un giudizio di responsabilità dell’accusato: oggi nella composizione a 6 (due laici e quattro togati) ci vogliono quattro voti per un giudizio di colpevolezza. La proposta (Ermini) di collocare all’esterno l’organo disciplinare richiederebbe tempi lunghi e forse una modifica costituzionale. Il rischio è che più si alza il tiro, più si rinvia la riforma che è già in ritardo, scontando tutti i rinvii già maturati. Riserve, in materia di modello elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura sembrerebbero emergere anche in relazione alla mancata presenza di quote di genere e per l’accorpamento di giudici e pubblici ministeri, nei collegi e nell’elettorato attivo e passivo.
In tal modo la riforma esclude – allo stato – qualsiasi elemento legato alla introducibilità attualmente all’esame del Parlamento della separazione delle carriere.
La riforma non affronta neppure il problema dei magistrati fuori ruolo che pur rappresentano al pari della nomina dei direttivi e dei semidirettivi un problema di non secondario rilievo. Parimenti la riforma non affronta la questione della composizione dei magistrati segretati, da sempre distribuiti secondo logiche ispirate alla proporzionalità della composizione consiliare, con esclusione non solo di componenti laici, ma anche riconducibili ad una possibile loro indicazione. Si tratta di un ulteriore strumento attraverso il quale le correnti alimentano il proselitismo e costruiscono le carriere dei magistrati negli spazi destinati alla magistratura. Al tema del rapporto con la politica, sicuramente e significativamente toccato dal fuori ruolo, al quale si è accennato, la riforma dedica solo due aspetti. Il primo attiene alla partecipazione dei magistrati alla competizione elettorale ed al rientro nei ruoli dopo l’esaurimento della vicenda politica, e quello delle condizioni per la nomina a componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura.
L’esclusione – molto opportuna – di membri del Parlamento che hanno la possibilità di diventare vicepresidenti del Consiglio Superiore della Magistratura – come è emerso nelle più recenti vicende (Rognoni, Vietti, Mancino, Legnini, Ermini) – dopo un passato diversamente caratterizzato è già stata avversata da alcune forze politiche. Sarà un significativo banco di prova della tenuta della riforma. Non si può negare che anche la componente laica, si connoti per “visioni” politiche e ideologiche riconducibili a specifiche aree della rappresentanza parlamentare da cui riceve il consenso ancorché a maggioranza altamente qualificata. Sarebbe ipocrita altresì negare che le nomine non siano legate alle maggioranze e minoranze parlamentari ed all’interno di queste ai rapporti di forza delle sue componenti. Si tratterebbe, tuttavia, di un rapporto maggiormente mediato rispetto a quello di un parlamentare che transita da uno status ad un altro.
Al di là delle (buone?) intenzioni, si ha la sensazione che, pur dovendo assistere all’oblio di alcuni burattinai, i protagonisti dei condizionamenti sul potere giudiziario, continueranno ad operare anche con le nuove regole, evitando soltanto le patologie troppo evidenti.
La riforma non affronta – e forse non poteva farlo – altri aspetti che le intercettazioni hanno evidenziato: i rapporti tra magistrati e giornalisti e le implicazioni dell’ideologia dei magistrati nell’esercizio dell’attività giudiziaria. Si dice che oggi la fiducia dei cittadini nella giustizia, sia crollata: non c’è da meravigliarsi. Piuttosto stupisce che, pur essendo quanto emerso, perfettamente conosciuto, la fiducia potesse considerarsi elevata.