Erano anni che non si leggeva sui giornali un simile fuoco di fila nei confronti di un governo in carica che si propone di riformare la giustizia. Negli ultimi giorni, infatti, le toghe di Magistratura democratica, la corrente di sinistra da sempre legata al Pci-Ds-Pds-Pd, hanno deciso di farsi trasportare nel passato dalla macchina del tempo di almeno 20 anni, rispolverando il solito armamentario. Nel mirino è finito tutto il pacchetto di norme proposte dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Norme, a detta di molti commentatori, alquanto blande che non incidono al momento in maniera efficace sul sistema giudiziario del Paese ma che sono comunque un buon inizio.

La riforma, infatti, non contiene nulla sulla separazione delle carriere o sulla responsabilità civile dei magistrati che sbagliano, limitandosi ad abrogare l’abuso d’ufficio, un reato che nella quasi totalità dei casi si conclude con un’archiviazione al termine delle indagini preliminari, e a modificare quello di traffico d’influenze illecite, reato quanto mai evanescente che lascia ampia discrezionalità ai pm. Nonostante ciò, si è scatenata la reazione delle toghe di sinistra. Va detto che fin dall’insediamento del governo Meloni i magistrati di Md avevano deciso di sparare a palle incatenate. Md è la corrente più ideologizzata all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Rimase celebre la sua battaglia contro il referendum costituzionale del 2016.

«Chi vota Sì sbaglia, come i repubblichini», disse l’allora presidente del tribunale di Bologna Francesco Caruso, toga punta di Md, paragonando chi voleva la riforma a coloro che nel 1943, dopo la caduta del fascismo, decisero di arruolarsi nella Repubblica di Salò e seguire così il duce. Il primo terreno di scontro, la «truffa delle etichette», era stato il decreto anti rave dello scorso anno. Una norma «pericolosa» in quanto poteva entrare in «drammatica collisione con i nostri diritti e valori fondamentali». «Se questo è il biglietto da visita del nuovo esecutivo in materia penale, ci aspetta una lunga stagione di resistenza costituzionale», dissero le toghe di Md che sono state di parola.
Fra gli apripista vi è Nello Rossi, ex procuratore aggiunto a Roma ed ex avvocato generale dello Stato. Rossi, da qualche anno in pensione, dopo una parentesi alla Scuola superiore della magistratura, è stato nominato direttore della rivista Questione giustizia, l’house organ di Md.
Dalle colonne di QG Rossi ha deciso di cannoneggiare Nordio. Come se non bastasse, non mancano le sue interviste su Repubblica dove una volta, presentato come «ex pm», afferma che la riforma Nordio è «guanti di velluto con i colletti bianchi in una logica da Far West», e l’altra, presentato come «giurista», che il Guardasigilli dovrebbe «pensare di più alle vittime» e ha «rimosso il passato da pm». Insieme a Rossi contro Nordio vi sono poi una serie di nomi eccellenti di Md: Eugenio Albamonte, pm a Roma, Francesco Curcio, procuratore di Potenza, Luigi Patronaggio, procuratore generale a Cagliari, Paolo Ielo, Francesco Pinto e Fabrizio Vanorio, rispettivamente procuratore aggiunto a Roma e Genova e Napoli.

Contro l’assalto di Md, i colleghi di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, secondo cui invece bisogna «prendere distanze da un simile approccio ideologico che ci riporta indietro alla vecchia contrapposizione tra politica e magistratura di un passato che si vuole dimentica e che portato la magistratura ad essere vista dai cittadini come politicizzata». Come dargli torto?

Paolo Pandolfini

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