La riforma delle Province: gli errori del passato e le prospettive per il futuro sotto la lente della costituzionalista Ines Ciolli, vicepreside della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza.

La legge Delrio parla di enti di area vasta, ma la Costituzione prevede ancora le Province. Cosa è successo?
«L’intento era quello di abrogare le Province e di creare gli enti di area vasta, ma ciò sarebbe stato possibile solo se fosse stata approvata la revisione costituzionale del Titolo V (la cosiddetta riforma Renzi-Boschi). Si è però cominciato modificando solo con legge ordinaria (la n.56 del 2014, la l. Delrio) un intero “sistema della geografia istituzionale della Repubblica” (così definito dalla Corte costituzionale nella sent. 50/2015). Ci si è ritrovati, quindi, con un ente provinciale zoppo».

Quale iter legislativo permetterebbe una riforma completa delle Province nel prossimo futuro?
«Un progetto serio di riforma delle autonomie locali deve partire dalla revisione del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali (d.lgs n. 267/2000) oltre che rivedere la legge Delrio. In tal modo, si potrebbe auspicare un ripensamento organico degli enti territoriali della Repubblica, incentrato anche sulle reciproche relazioni che devono instaurarsi tra gli enti territoriali. In effetti, da una parte il ministero dell’Interno ha avviato la riforma del TU degli Enti locali; dall’altra il Parlamento sta lavorando per modificare la l. Delrio: alla Commissione Affari costituzionali del Senato si è giunti a un testo unificato, presentato alla stessa Commissione nel giugno 2023. Il testo prevede il ritorno all’elezione a suffragio universale diretto e un rafforzamento delle funzioni affidate alle Province. Da allora, però, tutto tace».

La semplice abrogazione della Delrio non risolverebbe il problema?
«L’abrogazione creerebbe un vuoto normativo: se da un lato le Province continuerebbero ad esistere perché menzionate in Costituzione, dall’altro verrebbero a mancare le norme che disciplinano l’articolazione delle (poche) funzioni provinciali e quelle relative all’elezione indiretta. Sarebbe necessario un dibattito pubblico volto a ripensare il ruolo delle autonomie locali».

L’attuale maggioranza vuole tornare quindi all’elezione diretta delle Province.
«L’elezione diretta contribuisce a una più forte legittimazione democratica delle istituzioni (lo hanno affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza 241 del 2021 e la Carta europea delle autonomie). Ciò non vuol dire che l’elezione di secondo grado non sia democratica; tuttavia, trattandosi di enti territoriali minori, la scelta diretta dei rappresentanti può creare un legame più stretto e senza intermediazioni con la cittadinanza».

Ovviamente, però, a questo si dovrebbe affiancare un’elencazione delle competenze.
«La Legge Delrio ha rappresentato una vera e propria riforma di sistema e ha ripensato intere competenze, che prima spettavano alle Province riassegnandole soprattutto alle città metropolitane, ma anche a Comuni e Regioni. Rilegittimare le Province significa ripensare il modello ritagliato anche in base alle competenze regionali che la riforma costituzionale del 2001 ha rafforzato. È necessario un ente intermedio tra Regioni e Comuni che non sia di mero raccordo. Si pensi alla tutela ambientale: la Provincia costituirebbe la dimensione ottimale cui le Regioni possono demandare controlli e attività; il legame con le Regioni deve essere più stringente e concreto».

E se il ripristino delle Province fosse soltanto un modo per procurare posti retribuiti alla classe politica?
«Bisogna ricordare che la democrazia ha i suoi costi, che però garantiscono un beneficio, perché quando le decisioni sono assunte da rappresentanti elettivi su un territorio e sono più vicine ai cittadini, sono condivise e rispettate. Dovremmo preoccuparci oggi dei costi di un riarmo, non dei costi di un ente rappresentativo che non è certo così ingente. Il pluralismo territoriale, previsto dall’art. 5 Cost., che si confà alla nostra storia e alla nostra cultura giuridica, è quello che configura la struttura di una democrazia matura, quale la nostra continua a essere nonostante i continui attacchi».

A proposito dell’elezione, parliamo della legge elettorale: quale secondo lei sarebbe più adatta?
«Quando il corpo elettorale non è omogeneo, è inutile costringerlo in formule maggioritarie: le coalizioni nate solo ai fini elettorali fanno fatica a restare coese quando governano. Rappresentare le forze in campo per quel che sono attraverso un sistema elettorale proporzionale, magari anche con un minimo sbarramento, può responsabilizzare i partiti politici e dare vita a coalizioni almeno più realistiche. Quanto ai collegi, la proposta dell’Unione province italiane che contempla una formula proporzionale e la creazione di collegi uninominali è un sistema che ha un rendimento proporzionale; anche se può accadere che il binomio collegio uninominale e sistema proporzionale possa a volte creare le condizioni per le quali in alcuni collegi non si elegga alcun rappresentante e in altri se ne eleggano più d’uno. Tuttavia, non credo che la stabilità delle maggioranze risieda nell’ingegneria elettorale; piuttosto bisogna ritornare alla capacità di mediazione politica e al dialogo tra maggioranza e opposizione e all’interno delle maggioranze stesse».

Si sbilanci: questa riforma si farà o no?
«Non saprei. Sembrava ci fosse un interesse a modificare la legge n. 56 del 2014 e anche il TU degli Enti locali. L’attenzione invece è focalizzata sulla differenziazione regionale. Auspico un’inversione di tendenza, perché ritengo più utile riformare le autonomie già esistenti, piuttosto che puntare su un’ulteriore frammentazione e diversificazione dei territori, delle quali in questo momento il Paese non ha bisogno».

Giuliano Vacca

Autore