Il risultato delle elezioni in Abruzzo è stato un avvertimento (quasi un’ultima chiamata per l’imbarco) sia per la maggioranza che per l’opposizione. La coalizione guidata da Giorgia Meloni (le buone affermazioni di Forza Italia riabilita il centro rispetto alla destra) non teme più non solo la “spallata’’ ma neppure l’inversione della tendenza e pertanto dovrebbe pensare a governare e ad affrontare i tanti problemi aperti. Le opposizioni “che risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza’’ devono convincersi che non è il numero a fare la forza, ma la capacità di costruire una strategia politica che non consista prevalentemente nella caricatura dell’avversario attribuendogli un’inguaribile vocazione autoritaria (come l’aver definito la mezza vittoria in Sardegna come la risposta delle “matite ai manganelli’’).

Ambedue le parti dovrebbero far tesoro di quel po’ di esperienza che la dialettica politica ha consentito in questa legislatura. Le opposizioni sono state in grado di mettere in difficoltà il governo e la maggioranza in un solo caso: quando hanno avanzato la proposta dell’introduzione di un salario minimo legale. Nessuno si aspettava che i media “amici degli amici’’ intuissero l’impatto di tale progetto con l’opinione pubblica, amplificando gli effetti nell’ambito di un dibattito dotato di buone credenziali: la direttiva europea, il numero dei lavoratori interessati, la narrazione dei bassi salari, la discesa in campo di due confederazioni (la Cgil e la Uil) mentre la Confindustria aveva marcato visita.

Il governo e la maggioranza erano contrari; l’avevano affermato già nel dicembre 2022, facendo approvare alla Camera una risoluzione (con l’astensione del Terzo Polo) che proponeva una linea diversa centrata sulla contrattazione collettiva. Sappiamo poi come questa vicenda è terminata: la maggioranza è stata costretta a prendere tempo e a mettere in campo, con l’aiuto del CNEL (un’abile intuizione della premier), una proposta di legge delega che, seppure con modalità diverse, affronta la questione posta dalle opposizioni (tranne IV), le quali tuttavia hanno avuto – per motivi di propaganda politica- la dabbenaggine di trasformare una mezza vittoria in una sconfitta. La proposta di legge è ora all’esame del Senato che non sembra molto impegnato nell’approvarla in via definitiva, anche perché vi sono dei nodi da sciogliere nel testo di non facile soluzione. Il fatto è che la questione del salario minimo sarà uno dei temi centrali della campagna elettorale dei socialisti in Europa.

L’intesa delle opposizioni sul salario minimo scaturì nel 2023 dopo la sconfitta nelle regionali del Molise (quando aveva debuttato – con quattro amici al bar – il campo largo). Attenzione, dunque, ad un possibile ritorno di fiamma che rimetta in moto il circo mediatico che abbiamo visto all’opera l’anno scorso. A Villa Lubin c’è sempre il CNEL, con il suo volitivo presidente.
Sull’agenda del governo si proietta, poi, l’ombra di Banco delle pensioni. Al di là dei propositi velleitari di riforme epocali, vi sono delle opere di manutenzione indispensabili. Con le quote i governi hanno già completamente raschiato il fondo del barile. Peraltro – strada facendo – il marchingegno (quota 100) con cui il governo giallo-verde volle favorire la deriva del pensionamento anticipato ha cambiato segno fino ad arrivare con quota 103 rivisitata nella legge di bilancio 2024 ad un sostanziale disincentivo ad avvalersene.

All’inizio del 2025, poi, ripartirà, dopo il blocco introdotto nel 2019, una delle norme più importanti della riforma Fornero: l’adeguamento automatico dei requisiti anagrafici e contributivi del pensionamento di anzianità agli incrementi dell’attesa di vita. Coi chiari di luna della finanza pubblica è bene sapere che la riforma Fornero nei 12 anni dalla sua entrata in vigore ha subito deroghe e dirottamenti di ogni tipo che a regime hanno bruciato ben 48 miliardi dei risparmi previsti ed hanno consentito a 950mila soggetti di andare in quiescenza attraverso le regole e i requisiti previgenti. Per farla breve si è esaurita la fase in cui i governi succeduti al Conte 1 hanno cercato di tenere in piedi il sistema con impalcature provvisorie.

Occorre mettere mano a lavori di ristrutturazione che abbiano presente il vero problema delle pensioni in Italia: la crisi demografica. Non può reggere un sistema in cui continueranno ad aumentare il numero dei pensionati delle generazioni dei baby boomers, che arrivano al traguardo in condizioni da anziani/giovani, portatori di una storia lavorativa e contributiva lunga e ininterrotta che consentirà loro di godersi il trattamento per almeno un paio di decenni, in proprio, e per altri anni i titolari della reversibilità (in particolare le vedove). Mentre sul versante di chi paga le platee continuano a ridursi per un motivo banale ma ineludibile: i rimpiazzi non sono adeguati perché non sono nati. Paradossalmente l’immigrazione potrebbe sembrare la via più semplice per aggiustare gli squilibri, perché l’inversione dei processi di denatalità, ammesso e non concesso che possa essere realizzato, richiede decenni. Ma è dal 2014 che l’immigrazione non è più in grado di pareggiare il saldo demografico negativo. Da quell’anno il Belpaese ha perso 1,4 milioni di residenti di cui 900mila al Sud.