Riforme e premierato, lo strano tabù del Quirinale

Dopo il pandoro della Ferragni e prima della sbornia populista sul Mes, lo scivolone che ha occupato di più il chiacchiericcio politico di questa settimana è stato il presunto attacco del Presidente del Senato alle prerogative del Capo dello Stato. La seconda carica dello Stato che attacca la prima fa notizia. La Repubblica ci ha pure fatto un titolo da romanzo d’avventura (“attacco al Quirinale”) e tre pagine di analisi e interviste.

Con tutto il rispetto per la carica che ricopre, faccio fatica a pensare a un politico che sia più distante da me, nella forma e nella sostanza, di Ignazio La Russa. Continua a inquietarmi che la seconda carica dello Stato sia occupata da un postfascista che è molto più fascista che post e che tiene in casa i busti di Mussolini. Ma questa posizione di distanza siderale non mi impedisce di ascoltare le parole che dice per quello che sono: parole che esprimono concetti.

Riascoltiamole. Primo: anche se la proposta avanzata dal governo non tocca le prerogative formali del Capo dello Stato, è chiaro che, alterando quelle di governo e Parlamento, finirà per cambiare gli equilibri istituzionali esistenti, ridimensionando il ruolo del Quirinale. Secondo: anche se in passato è stato un bene che la “fisarmonica” dei poteri del Presidente della Repubblica si allargasse per gestire momenti di crisi della politica, forse al di là delle previsioni dei costituenti, fare in modo che questa fisarmonica torni ad accorciarsi, irrobustendo l’efficacia e la legittimità di governo e Parlamento, è un obiettivo che la riforma istituzionale dovrebbe darsi. Si può essere più o meno d’accordo con questi concetti. Ma l’attacco al Quirinale esiste solo nella fantasia di qualche romanziere prestato al giornalismo o alla politica.

In verità, anche proposte di riforma più equilibrate di quella MeloniCasellati, avrebbero lo stesso effetto di restringimento della fisarmonica del Quirinale analizzato da La Russa. Persino semplici proposte che piacciono tanto a sinistra, come la sfiducia costruttiva e il potere di revoca dei ministri da parte del Presidente del Consiglio, finirebbero per limitare il campo d’azione del Presidente della Repubblica. È un dato di fatto che se governo e Parlamento svolgono le loro funzioni in maniera più stabile, incisiva e legittima, c’è meno bisogno della supplenza del Colle. Viene da chiedersi, allora, che cosa si nasconda dietro a questo meccanismo pavloviano per cui ci si agita così tanto quando si tocca il tabù del Quirinale. Ci sono almeno tre riflessi psicologici da analizzare.

Il primo, il più sano, è il comprensibile conservatorismo di chi non si fida di questa politica, della transizione infinita della Seconda Repubblica per cui sembra non esserci mai fine al peggio, tanto da desiderare qualcuno in grado di tirarci fuori dalle peste quando vi ci infiliamo da soli. Il secondo riflesso psicologico, un po’ meno sano, è un certo elitismo. Siccome le masse rincitrullite prima dalle televisioni di Berlusconi e poi dai social ogni tanto si distraggono e danno il potere a qualche barbaro populista, è bene piazzare al Colle un badante dei populisti. Qualcuno che insegni loro le buone maniere quando ce n’è bisogno, impedendogli di nominare ministri che creerebbero turbolenze sui mercati, di fare i maleducati in Europa, e così via. Ovviamente questo riflesso si basa sul postulato che al Colle non possa che finire uno dell’élite, non uno dei barbari: ipotesi (incubo?) che non passa neanche per la testa ai nostri eroi. Il terzo riflesso psicologico, infine, è il caro e vecchio autoinganno. Per una parte della sinistra, la Costituzione Italiana è la più bella del mondo. Peccato, però, che negli ultimi decenni siamo stati noi a cambiarla due volte e malamente: una con il Titolo V, quando c’era da inseguire l’egemonia della Lega allora Nord, e una con il taglio dei parlamentari, quando c’era da inseguire l’egemonia grillina. Per non parlare della difesa del Parlamento da parte di chi l’ha umiliato tagliandolo a caso, riempendolo di turisti della politica e facendogli digerire qualsiasi protervia governativa.

Orbene. Questi riflessi psicologici sono un problema soprattutto per il Paese, perché impediscono alle opposizioni di svolgere una funzione positiva (costituente) di fronte a una proposta di riforma che non va bene e rischia di far danni per motivi che niente hanno a che fare col Quirinale. Il premio di maggioranza senza doppio turno, l’assurda rigidità del “secondo premier parlamentare”, l’assenza di istituti che rafforzino il Parlamento, da uno Statuto delle opposizioni al rafforzamento di strutture di controllo e istituti partecipativi: sono questi i temi per cui la riforma Meloni-Casellati non va bene. Ma su questo dovrebbero concentrarsi le critiche e le controproposte, come hanno fatto Stefano Ceccanti e altri mettendo sul tavolo proposte alternative di premierato, più attente all’equilibrio tra istituzioni e a quello tra assetto istituzionale e legge elettorale. È questa la discussione che serve al Paese, senza pregiudizi e sui contenuti. Per arginare il populismo, non ci serve un badante al Colle. Ma una politica che funzioni e torni a rendere sano il rapporto tra cittadini e istituzioni.