Di rigenerazione urbana ne parlano in troppi, in ogni occasione, per interventi che in altri tempi sarebbero stati classificati come adeguamenti edilizi o funzionali. Le aspettative erano altre: restituire dignità a complessi edilizi in condizioni di degrado e ai residenti migliore qualità abitativa e, presupposto implicito, la rigenerazione avrebbe dovuto riguardare un ambito urbanisticamente significativo. Poco o nulla di questi contenuti è presente nelle leggi regionali sinora approvate, ma anche nel disegno di legge che nella scorsa legislatura era prossimo all’approvazione. Oggetto di questi provvedimenti sono norme tese ad agevolare i processi di sostituzione con facilitazioni di vario tipo, soprattutto consentendo sostanziosi incrementi volumetrici rispetto allo stato di fatto preesistente, e del tutto non considerata è la dimensione urbana tant’è che nella rigenerazione trova piena legittimazione anche l’intervento limitato al singolo edificio.

È noto che riabilitare il patrimonio esistente prevede costi più elevati rispetto alle nuove costruzioni e sarebbe certamente irrealistico non considerare, come una componente irrinunciabile per attivare i processi di rigenerazione, incentivi e premialità. Questi ultimi hanno una tale rilevanza che calibrarne entità e modalità di applicazione merita qualche considerazione in più, partendo dall’ovvia considerazione che nelle città i valori immobiliari sono fortemente condizionati dalla rendita differenziale, a sua volta dipendente da numerosi elementi: la posizione dell’immobile rispetto alle aree centrali, la dotazione dei servizi, l’accessibilità, la qualità edilizia e urbana e altri ancora. Questa semplice osservazione dovrebbe comportare indicazioni opportunamente orientate nei provvedimenti legislativi e misure selettive da parte delle amministrazioni comunali.

Nei centri storici, soprattutto nelle aree metropolitane, l’investimento ha una remunerabilità certa dovuta a una domanda (non solo locale) disponibile ad adeguarsi ai prezzi di mercato. Riconoscere quindi agli interventi di demolizione e ricostruzione, comunque da ritenere marginali, premi di cubatura non soltanto appare incongruo per operazioni in grado di autosostenersi ma potrebbero alterare tessuti edilizi fragili che hanno nella conformazione depositata dalla storia la loro peculiarità. Situazioni del tutto opposte si riscontrano nelle zone della città da ristrutturare, sorte nelle caotiche espansioni dell’ultimo Dopoguerra e nelle vaste periferie, alla continua ricerca di una propria identità. Non è da escludere, in questi casi, che la rigenerazione abbia come obiettivo principale non tanto la parte residenziale quanto piuttosto l’adeguamento dei servizi, la dotazione di superfici a verde attrezzato e la sistemazione sia degli spazi pubblici sia delle aree di risulta il cui abbandono favorisce l’estraneità degli abitanti dai luoghi in cui vivono. Ristrutturare l’edilizia esistente o consentire nuove costruzioni, anche in deroga alle indicazioni dei piani urbanistici ma all’interno di una preventiva regia pubblica, può costituire – se abbinati a misure compensative – un fattore di dinamicità per accrescere la qualità urbana.

Caratteristiche ancora diverse dovrebbe assumere la rigenerazione urbana negli insediamenti di edilizia residenziale pubblica che risultano, allo stesso tempo, gli ambiti più bisognosi di cura ma meno attrattivi per gli investimenti privati. Realizzati in prevalenza negli anni Settanta e Ottanta, scontano il più delle volte processi accelerati di degrado per mancanza di interventi manutentivi in un contesto ambientalmente e urbanisticamente povero. Il sostegno al coinvolgimento dei privati non può non prevedere iniziative che siano flessibili e articolate in funzione dei risultati attesi, ma non è ipotizzabile che la parte pubblica si sottragga da un impegno anche finanziario poiché le politiche abitative sono ovunque un compito primario. Diversamente, la soluzione prevalente per risolvere i problemi dei quartieri di edilizia pubblica sembra affidata alla (s)vendita di quanto rimane del patrimonio pubblico.

Giancarlo Storto

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