Piattaforma sociale o dittatura digitale? Dirimere la questione è fondamentale per la sopravvivenza della cultura democratica. Staccando la spina a Trump, Twitter non ha solamente “spento” un cliente da oltre ottantanove milioni di followers. Bannando @realDonaldTrump e @Potus, ovvero President of The United States, il social network dei cinguettii ha tolto la libertà di espressione a un’intera Repubblica federale che, fino a prova contraria, trova rappresentanza nel suo Presidente. In Italia, poche ore dopo questa clamorosa censura, è stato “temporaneamente limitato” l’account del quotidiano Libero, reo, a detta dell’algoritmo di San Francisco, di aver “eseguito delle attività sospette”.
Quali attività? Non vediamo l’ora di scoprirlo perché, come accaduto per Trump, in queste ore si poseranno le pietre angolari della e-democracy e scopriremo se il diritto d’impresa (Twitter, Facebook, Google, Amazon, Apple sono aziende) è superiore alle tavole della cultura democratica. Il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti tutela la libertà di parola e di stampa. L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
L’Italia che non legge i giornali (solo il 28% dei giovani tra i 20 e i 24 anni, dati Istat, dice di sfogliarne uno almeno una volta alla settimana) forse non si straccerà le vesti di fronte al totem della libertà di stampa. Ma la vicenda Twitter tocca un altro articolo della Costituzione fondamentale per le nostre libertà personali, il numero 41. Perché è vero che “l’iniziativa economica privata è libera”, ma è altrettanto indiscutibile che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Ed è per questo che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La differenza non può sfuggire: non è l’algoritmo o il suo proprietario a determinare la legge, è la legge che controlla l’attività privata. In base a quale legge Twitter ha impedito l’accesso a un pubblico servizio a Trump o al quotidiano Libero? Sulla base di una sindacabile opinione? Sul presunto diritto di stabilire algebricamente il confine tra il bene e il male? Bisogna fare attenzione, perché in questo solco, a breve, potrebbe inserirsi la Commissione bicamerale d’inchiesta sulle fake news, già licenziata alla Camera e ora ferma al Senato. In assenza di una definizione condivisa e acclarata di “notizie false”, rischiamo di addentrarci in una pericolosa palude dove all’inizio sprofonderà il nemico, ma poco alla volta morirà la democrazia.
E allora provocatoriamente chiediamoci se domani fossero gli Stati a spegnere i social network. Se fosse l’Italia, ad esempio, a stabilire, per legge, che certe piattaforme sono incostituzionali, che violano le regole che ci hanno portato fuori dalle dittature e che, forse, è venuto il momento di porre un freno al delirio di onnipotenza di chi è passato dai fasti della primavera araba al black out dell’inverno statunitense. È una provocazione, ma non troppo. Forse val la pena sedersi attorno a un tavolo e mettere dei paletti.
*Deputato della Lega