Le opere complete
Riscoprire Ivan Illich, spirito libero del ventesimo secolo

Fra i grandi spiriti indipendenti del ventesimo secolo, critici della modernità, anarchici esistenziali, Ivan Illich, nato a Vienna nel 1926 e morto a Brema nel 2002, recita un ruolo di primo piano e forse è davvero giunta l’ora di leggerlo mettendo da parte i pregiudizi e gli stereotipi che spesso lo accompagnarono: lo pensa Giorgio Agamben che firma la prefazione al primo volume delle Opere complete (Celebrare la consapevolezza, Neri Pozza, pp. 885, 35 euro, a cura di Fabio Milana con traduzione sua e di Caterina Ranchetti), uscite in Francia da Fayard. Ed in effetti, se la scena culturale italiana non fosse così asfittica, tale pubblicazione dovrebbe essere considerata uno degli eventi editoriali di gran lunga più importanti dell’anno.
Illich, padre croato, madre ebrea tedesca, fu in molti versi un personaggio straordinario, provocatorio quanto basta per essere relegato all’angolo degli eccentrici, bizzarri e fantasiosi: era anche questo, ma non solo. Cresciuto a Spalato, studiò in Italia, divenne sacerdote cattolico entrato presto in tensione con le gerarchie ecclesistiche: neppure il fermento conciliare favorì la cura della ferita. Operò dapprima come vice parroco a New York, nel quartiere abitato dai portoricani, poi fondò in Messico, a Cuernavaca, la città dove Malcolm Lowry ambientò Sotto il vulcano, un centro di documentazione presto diventato leggendario, quindi si affermò come docente universitario e oratore internazionale. La conferenza, anzi, rappresentò con ogni probabilità la forma espressiva a lui più congeniale. Sin dall’inizio cercò di praticare un cristianesimo di grande suggestione vitale, aperto e lungimirante: molte delle osservazioni che elaborò a stretto contatto coi portoricani potrebbero esserci ancora utili per comprendere i meccanismi psicologici pronti a scattare di fronte agli immigrati.
Certe intuizioni sull’eloquenza del silenzio nell’apprendimento di una lingua sembrano profetiche: «Il missionario, o lo straniero, che usa le parole come si trovano sul dizionario, non conosce questo silenzio. È uno che cerca dentro di sé parole inglesi per trovare un equivalente spagnolo, anziché cercare la parola che entrerebbe in sintonia». Sembrerebbe una posizione alla Bronisław Malinowski, l’antropologo polacco, il quale per capire gli indigeni della Nuova Guinea non esitò a vivere lungo tempo insieme a loro scrivendo con il diario che ne conseguì, Argonauti del Pacifico Occidentale (recentemente ripubblicato da Bollati Boringhieri in edizione economica), il suo capolavoro. Se non fosse che poi, secondo Illich, per realizzare il vero incontro umano, a carte scoperte, dovremmo prendere spunto dalla posizione umile e comprensiva della Vergine Maria: «Il silenzio da cui è sorto non tanto il Fiat, quanto il Magnificat».
Di questi scarti folgoranti è tessuto il suo modo di ragionare, mai pago di se stesso, sempre in fibrillazione. Lo stesso concetto di “convivialità”, inteso come critica dello strumentalismo tecnologico, oggi assume una nuova attualità. Illich aveva il culto della comunità: per capire cosa pensava di una cosa, chiamava a raccolta gli amici. Eppure, lo disse a David Cayley (Conversazioni, Elèuthera, 1994), diffidava della «tolleranze media di tutte le idee»; sapeva, sulla scia di Dietrich Bonhoeffer, che non si può essere responsabili del Male nel mondo, senza indossare «la maschera dell’amore». Aveva un concetto sacrale dell’esistenza, mettendo insieme, senza confonderli, la Mecca, Gerusalemme, il Monte Sion, la Città Santa, i gradini in pietra di Buddha, i totem americani, l’ombelico del mondo a Delfi o nel Lago del Messico. E qui si avvicinava a Raimon Panikkar.
Era quello che si dice un pensatore radicale. Del resto il grande attacco da lui sferrato, sia nei confronti della scolarizzazione di massa, volta a uniformare la popolazione alle norme mercantili (da piccolo era stato diagnosticato come ritardato mentale da un test psichiatrico), sia rispetto alla scienza medica intesa quale trattamento meccanico delle patologie naturali (da vecchio accettò il tumore che gli sfigurò il volto), potrebbe tornare ad essere una preziosa fonte di riflessione, specie se le sue teorie venissero depurate dagli schemi ideologici che negli anni Settanta del secolo scorso rischiarono di neutralizzarle, come semplici fumoserie libertarie. In realtà la smitizzazione dell’istruzione pubblica predicata da Illich era ancora più estrema: risaliva alla cosiddetta “invenzione dell’infanzia”, come categoria filosofica, a cui si lega la tradizionale scansione scolastica, tesa a standardizzare i risultati, alla quale lui contrapponeva i “centri di apprendimento” e le “carte educative”: buoni che lo Stato potrebbe concedere alle famiglie per consentire l’accesso a specifiche conoscenze. Fantasie, utopie, falansteri? Forse sì.
Ma rileggiamo ad esempio certe dichiarazioni comprese in questo primo volume di tutte le sue opere (p. 633) e scopriremo alcune verità oggi negate dall’imperante moda formativa:«Contrariamente all’opinione popolare, un sistema scolastico non può produrre insegnanti. Può solo creare situazioni più o meno ideali per l’insegnamento. In senso stretto, l’invenzione educativa è personale e inimitabile. Idealmente il singolo insegnante è un creativo con un suo stile personale che non può essere imitato da un altro. L’insegnamento individuale è la “celebrazione” di un’esperienza intima che non ha precedenti. La qualità profetica e carismatica di un nuovo stile di insegnamento lo distingue dall’invenzione di tecnologie educative».
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