L'editoriale
Ritratto di Guido Morselli, l’autore incompreso rifiutato dagli editori e dagli amori
Nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto 1973 Guido Morselli, scrittore che mai è riuscito a trovare un editore per i suoi numerosi libri, si uccide. Subito il mondo letterario si mobilita e la stampa si impadronisce della storia: Morselli viene decretato un grande scrittore e le sue opere respinte casi esemplari di rifiuti eccellenti, tanto che in capo a pochi mesi cominciano a essere pubblicati sia i suoi romanzi sia i suoi saggi. Alberto Moravia stigmatizza così il gesto di Morselli: «Ha fatto malissimo. Visto che era ricco poteva fare come me, che a vent’anni feci pubblicare e mie spese Gli indifferenti».
In realtà un’opera di Morselli era stata regolarmente pubblicata da un editore, e da un editore importante. Si trattava di Proust o del sentimento, saggio uscito per Garzanti nel 1943, uno studio originale per scrittura e tesi – la Recherche come sintesi di contrari, io e sentimento – del tutto ignorato dalla critica proustiana. E c’era poi stata, due anni dopo, una prima e unica edizione di Realismo e fantasia, ovvero dialoghi con Sereno. Probabilmente la pubblicazione di questo libro, uscito per l’editore Bocca, avvenne sì, a spese dell’autore. Niente di assimilabile agli esordi di Moravia, dunque. Anche perché bisogna confrontare le date: se Moravia al tempo de Gli indifferenti aveva vent’anni, per Morselli la prima pubblicazione a pagamento era avvenuta a trentacinque, essendo egli nato il 15 agosto 1912. È da quel momento che comincia a scrivere di più, arrivando ai suoi grandi romanzi degli anni Sessanta, quando, di fronte ai ripetuti rifiuti, la sua reazione di ultra quarantenne che sulla scrittura ha investito tutto, e da sempre, non poteva essere la stessa di un impetuoso e risoluto ventenne.
«Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera…» (Diario, 6 novembre 1959). Ho oziato, dice Morselli spietato verso se stesso e anche ingiusto, perché se scrivere continuamente e con tanta passione per lui significa oziare, allora c’è dell’altro oltre alla frustrazione per il mancato riconoscimento, c’è il rimpianto di una vita diversa, il senso di colpa per non avere fatto qualcosa che sentiva doveroso fare. È lecito ave- re dubbi: forse non si è ucciso, dunque, soltanto per il fallimento professionale. La vita di Morselli in effetti non è stata all’insegna di imprese memorabili. Secondo di quattro figli, padre dirigente d’impresa e madre figlia di uno di più noti avvocati di Bologna. La famiglia si trasferisce a Milano quando Guido ha due anni e poi, nel 1922, la madre amatissima viene ricoverata per curarsi di febbre spagnola e i figli affidati a una governante. La donna morirà due anni dopo lasciando Guido sconvolto, mentre cominciano i primi dissidi con il padre, spesso assente e critico verso quel figlio che appare irrequieto e insieme svogliato, insofferente alla scuola (supererà l’esame di maturità nel ’31, da privatista, dopo essere stato bocciato l’anno precedente), senza un’idea precisa di cosa fare, tanto che si lascerà imporre l’iscrizione a Giurisprudenza e conseguirà una laurea che dal punto di vista lavorativo non gli servirà assolutamente a nulla. Dopo il servizio militare e la scuola ufficiali degli alpini, va all’estero e da qui scrive racconti e reportage, quindi resiste solo un anno come promotore pubblicitario – un posto che gli ha trovato il padre – e, alla morte della sorella Luisa (1928) – un altro evento che lo traumatizza –, ottiene dal padre un vitalizio che gli permetterà, per il resto della vita, di dedicarsi solo alla lettura e alla scrittura. Colto, non erudito. È questo che gli interessa essere.
«L’erudizione è un possesso statico, acquisito una volta per tutte, che una salda memoria basta a conservare. La cultura dell’individuo è sempre sul farsi, o non è. L’uomo colto non è chi sa, ma chi apprende. (…) Non basta. A differenza dell’erudizione, la cultura è un fatto non soltanto mentale. – È una qualità che attiene al carattere, che presuppone nell’individuo un certo atteggiamento. Si suol ripetere che la cultura genuina è, di norma, anche educazione dell’animo, e che ingentilisce i costumi, che eleva il sentimento. Questo è vero, sebbene sia un luogo comune» (dal Diario). Nella lunga lettera in risposta alla ancora più lunga lettera con cui Italo Calvino, all’epoca direttore editoriale di Einaudi, rifiuta il suo romanzo Il comunista, si definisce anche “autodidatta”, con un eccesso di umiltà forse fuori posto, ma che suona genuino. Nel 1940 Morselli è in Sardegna, richiamato come ufficiale per alcuni mesi. Scrive nell’occasione un saggio sui fondamenti della moralità, Filosofia sotto la tenda, quindi, al ritorno, si dedica allo studio di Proust e alla stesura del citato Proust o del sentimento.
Viene spedito in Calabria, ed è qui che inizia a scrivere l’altro libro che verrà pubblicato, Realismo e fantasia, ma soprattutto prende appunti e pensa a quello che sarà tra i suoi romanzi più belli, Uo- mini e amori. Ecco il passaggio in cui Vito Cambria, pittore, lasciato dalla donna che credeva di non amare soffre invece di un dolore immenso: «… Una sofferenza improvvisa e travolgente, che ebbe per Cambria la qualità di una rivelazione. (…) S’illuse per un momento di odiarla, e fu l’ultima disperata difesa dell’orgoglio. (…) Sentiva il suo male addentrarsi in lui, progredire, lo sentiva ora come qualcosa d’indipendente, dotato di una sua ostile volontà. Il dolente stordimento del mattino si mutava in un assillo vivo, mentre un pensiero gli martellava il cervello con la violenza assidua dell’ossessione: “non la vedrai mai più”. Non aveva mai riconosciuto, pensava, la più semplice delle verità: si era illuso di avere altri interessi, l’arte, la gente, il successo; ora che era tardi finalmente capiva, ora rinsaviva. “Ora, se te ne restasse il fiato, ti pianteresti in mezzo a quella piazza a gridare che Vito Cambria sta soffrendo bestialmente perché la sua amica lo ha lasciato, giureresti che nella vita c’è una cosa sola che importi, l’amore di una donna”» (Uomini e amori).
Cambria scrive un telegramma che gli viene rispedito da un’amica di lei che lo invita a cessare ogni comunicazione, ma come preso da follia comincia a mandare invece una lettera dopo l’altra, vivendo solo per la speranza di ricevere una risposta e martirizzandosi nel tornare ossessivamente con la memoria a ogni dettaglio della relazione, dandosi tutte le colpe, detestandosi. Le reazioni esaltate e maniacali all’abbandono raramente sono state descritte così bene. «Conobbe l’ansia della ricerca retrospettiva cara e torturante; (…) Pensava con odio e invidia a se stesso, a quell’individuo che aveva senza merito, forse indifferente, posseduto la donna che a lui mancava, la cui mancanza rendeva la sua vita un deserto» (Uomini e amori). È nel 1952, quando la sua fidanzata di sempre declina la sua proposta di matrimonio e sposa invece un altro, che Morselli sperimenta su se stesso le pene dell’abbandono (e del rifiuto, questa volta sentimentale). L’amica Maria Bruna Bassi racconterà di molti flirt e di poche relazioni importanti, di amore-odio. Un passionale. Un uomo che non veniva facilmente dimenticato. Nello stesso anno c’è un altro evento importante: Morselli decide di costruirsi a Gavirate, su un terreno compratogli dal padre, una piccola casa che ha disegnato lui stesso, Santa Trìnita. Nessuna comodità “moderna” nella casa. Non le vuole, le giudica superflue. Si chiude lì dentro e scrive, scrive. Qualche articolo con cui collabora a giornali locali e al Tempo di Milano, ma soprattutto romanzi, commedie, racconti, saggi.
Di nuovo, però, nel Diario annota pensieri che ci suggeriscono che non senta affatto l’impegno letterario come una missione o una giusta vocazione. Di Morselli è sorprendente l’eclettismo: sembra incredibile che Uomini e amori abbia lo stesso autore di Divertimento 1889, di Roma senza Papa, di Incontro col comunista, di Contro-passato prossimo, tutte opere a cui è difficile attribuire un genere, e in cui spesso si intrecciano saggistica e narrativa, o che partono da premesse fantascientifiche, come Roma senza Papa, che vede una Roma disfatta e un Vaticano disabitato, perché il Papa ha trasferito la sede apostolica in una villetta a schiera a Zagarolo. Nessuno che abbia trovato intelligenti, profondi, ben scritti e godibili quegli stessi libri che subito dopo la morte di Morselli tutti si sono affrettati a definire capolavori, sprecandosi in accostamenti, rimandi, paragoni con autori celebrati e già nella leggenda. Tra le carte di Morselli – tante, perché collezionava anche quotidiani e riviste –, anche un fascicolo con su scritto “Rapporti con gli editori” e il disegno di un fiasco sul frontespizio. All’interno, la corrispondenza con i responsabili delle case editrici, ovvero la lunga, stupefacente serie di ininterrotti rifiuti, che parve a un certo punto aver fine quando, nel ’66, Rizzoli accettò di pubblicare Il comunista. Macché. Illusione. Dopo l’arrivo delle prime bozze da correggere era cambiato il direttore editoriale, e il sì diventò un ulteriore no. Il rifiuto di cui si è parlato di più è quello di Italo Calvino, perché la sua lettera è articolatissima e anche, in più punti, riguardosa, e ad essa rispose un Morselli ancora più riguardoso, che pur difendendo le proprie ragioni, o meglio le ragioni del romanzo (Il comunista, che era parso a Calvino soprattutto privo di ogni accento di verità nella descrizione del Partito comunista e dei suoi membri), chiude con grandi ringraziamenti tutt’altro che ipocriti.
Morselli continua a scrivere e a inviare. È sempre più solo. Rara- mente si reca a Milano. Preferisce girare nella sua vallata sul dorso del cavallo. Gli viene rifiutato anche l’ultimo, splendido romanzo, Dissipatio H.G. (Humani Generis), che assomiglia a una confessione, la prima. Il protagonista è un uomo lucido, ironico e solitario, che sta per porre fine ai suoi giorni tuffandosi in un laghetto in fondo a una caverna ma poi, all’improvviso, cambia idea, e scopre che proprio in quel breve intervallo il genere umano è scomparso. Resta così l’unico uomo sulla Terra, lui che aveva voluto morire. È l’ultima volta che Morselli scrive di suicidio, ma non è la prima. Aveva già scritto un articolo sul tema molti anni prima (1919), e a distanza di tempo (1956) un saggio di una trentina di pagine, Capitolo breve sul suicidio, in cui sono illustrate le varie motivazioni che possono spingere a preferire la morte, motivazioni che alla fine, secondo lui, si riducono alla perdita di ogni interesse, di ogni sentimento verso la vita. Pochi mesi dopo aver terminato Dissipatio H.G. ed esserselo visto rispedito indietro già da due editori, costretto a lasciare Santa Trìnita per un’improvvisa “invasione di motocrossisti” che l’avevano spaventato con le loro brutali reazioni alle sue rimostranze, Morselli il 31 luglio 1973 è nella casa di Gavirate. Si accomoda su una sedia a sdraio che ha portato in bagno e si spara un solo colpo con la sua Browning 7.65 («la ragazza dall’occhio nero» come l’aveva più volte definita nel suo Diario). Lascia una lettera alla questura di Varese, in cui si legge: «Non ho rancori».
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