Il ritratto
Ritratto di Marco Pannella, il narciso che se lo poteva permettere
Un giorno mi disse, uscendo dalla sede del Partito radicale: «Ho voglia di auto blu. Sono un politico, ho dato a questo Paese gli occhi per vedere e la voce per parlare. Voglio andare al governo. Ti meraviglia». No, dissi, benché mi meravigliasse molto. Pannella lo hanno seppellito così: un bravo matto amato da tutti (quando in realtà era molto più detestato) ma così sincero e sorprendente anche quando faceva incazzare la Chiesa, i democristiani e in genere i bravi ragazzi della politica, che ogni volta – quando digiunava – speravano in molti che ci lasciasse la pelle. Eugenio Scalfari che aveva con lui un rapporto infastidito e pieno di gelosie reciproche, mi chiese di andarlo a intervistare in ospedale: «Marco stavolta sta veramente male. Vai a vedere».
Lo trovai malconcio, un felice moribondo pieno di cannule e di flebo, contento di sapere che stava davvero rischiando la pelle, perché era la sua arma. Mi spiegò, al solito baretto di via di torre Argentina, la scienza del digiuno protratto: soltanto cappuccini, non ricordo quanti, e tenere sempre pronto l’aggeggio per misurare la pressione. Sapeva farsi del male ma con sapienza, senza masochismo, come sistema di comunicazione. Poiché sul Riformista mi permetto di spesso la prima persona, ricordo quello che poi è rimasto un rimpianto della mia vita.
Successe questo: l’ambasciata francese di palazzo Farnese aveva invitato me e Pannella per discutere di mafia con dei giornalisti francesi. Marco e io ce la cavavamo con la loro lingua e così parlammo a lungo e nulla fu realmente memorabile se non che, arrivati davanti alla fontana di piazza Navona da cui si vede San Pantaleo, Marco mi disse: «Io sono venuto per te, non per il dibattito. Vuoi venire nel Partito radicale? Stasera sei nostro ospite all’Ergife sull’Aurelia e domani facciamo le cose fatte come si deve». Mi resi conto che l’operazione per cui Pannella aveva bisogno di energie fresche era quella che avrebbe portato Francesco Rutelli al Campidoglio di Roma, ma dopo aver stipulato un patto che passava attraverso un gruppo di persone che mi erano indigeste. Motivo per cui abbandonai il famoso albergo di buon mattino lasciandogli una breve lettera di ringraziamenti. Non ricevetti risposta. Pannella non era un santo o un angelo, ma un politico. Questa la sua sincera nobiltà. E un politico, se non è un parassita che vuole arricchirsi, deve voler governare, non essere un arredo.
Apparteneva a una generazione di radicali socialisti e comunisti che si era scannata e amata nel parlamentino universitario dell’Orur. Lui aveva venticinque anni nel 1955 quando aveva fondato il Partito radicale come una costola di sinistra del Partito liberale italiano (che era ormai un partito conservatore). Tutti quei fondatori hanno poi litigato per gruppi e si sono contesi vicendevolmente il merito di quella fondazione che comunque comprendeva l’argenteria dell’epoca: con Marco erano Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, il creatore del Mondo Mario Pannunzio (oggi nessuno può avere la più larvale idea dell’importanza culturale di quella testata per pochi scrittori e ancor meno lettori), Leo Valiani, il filosofo Guido Calogero e tanti altri. Eugenio Scalfari scrisse la sua parte di storia nell’indimenticabile La sera andavamo a via Veneto che è quella di un gruppo rompighiaccio nella storia d’Italia, ma anche di grandi amici-nemici.
E la storia dell’Italia che quel gruppo scardinò (ma con cui fece anche i conti e trattò, assorbì, ne fu assorbita) fu quella del mondo cattolico conservatore figlio di Pio XII, il papa principe Eugenio Pacelli che «allargò le sue grandi ali bianche» sulle macerie della Roma bombardata il 19 luglio del 1943 come lo cantava De Gregori, figlia e madre di una Roma pretesca e nera, poi venne Papa Giovanni XXIII che provocò uno smottamento o un avvicinamento laico e Pannella era di nuovo in testa. Ma sull’altra frontiera, opposta a quella papale, c’era il comunismo cingolato e cirillico che veniva dal freddo. Non quello (astutamente accomodante) di Togliatti e Longo. Il Pci non era un partito santificabile: nel 1956 aveva fatto fuoco e fiamme. Come anche Giorgio Napolitano ha ricordato con straordinaria onestà in una splendida intervista americana, ricordiamo il ruolo che il Pci, insieme a Mao dalla Cina, ebbe per far muovere i carri armati contro gli insorti di Budapest, giusto un anno dopo la nascita del Partito radicale.
Il divorzio fu un cavallo di battaglia socialista, specialmente di Loris Fortuna, ma Pannella – che politicamente era anche un cuculo che faceva le uova nei nidi altrui o ne rubava le uova – si aggregò e in parte impadronì della battaglia. Era tipico dell’epoca e di quella politica. Facevano tutti a gomitate. La guerra per il divorzio fu magnifica e terribile, piena di anatemi e per nulla sostenuta dal Pci. Il Pci, dopo la “svolta di Salerno” che includeva tutti i non fascisti e i fascisti pentiti, aveva approvato l’articolo 7 della Costituzione che riconosceva come validi gli accordi di conciliazione firmati da Mussolini. Togliatti non voleva dispiacere i cattolici e considerò il divorzio un tema non attuale La sua storia extraconiugale con Nilde Jotti gli fece provare quanto il suo partito fosse ferocemente contrario alla dissoluzione dei matrimoni e il Pci si aggregò a Pannella e a Loris Fortuna soltanto quando la partita era stata vinta.
Poi, ci fu la seconda guerra contro il referendum abrogativo guidato da Amintore Fanfani, segretario della Dc e nelle urne gli italiani votarono per il divorzio. Giorgio Forattini disegnò allora la storica vignetta di una bottiglia di champagne di cui salta il tappo con la faccia di Fanfani che, a causa della sua statura, era chiamato appunto “il tappo”.
Pannella era partito da battaglie civili minime ed efficaci: quella per i diritti degli handicappati che non potevano attraversare la strada, il rispetto per chi non è perfetto, per chi non è in buona salute e quindi anche per chi per libera scelta, decide di morire. Questo è stato uno dei punti più aspri e contesi della politica pannelliana insieme a quella per l’aborto. L’aborto come pratica era sempre esistito grazie a un bel numero ginecologi – “cucchiai d’oro” – che si arricchivano praticando interruzioni di gravidanze nei loro studi. Ma la massa degli aborti clandestini era praticata in condizioni miserabili per opera delle cosiddette mammane, sul tavolo di cucina o peggio. La conseguenza era un alto tasso di mortalità per infezioni ed emorragie in un clima di segreto e di vergogna che comportava un prezzo ulteriormente umiliante e infernale per le donne.
Tuttavia, la battaglia per l’aborto che condusse alla legge 194 fu pesante e atroce, perché il fronte di quelli che in America si chiamano “pro life” (e che non coincidono necessariamente con i cattolici) puntava i piedi per limitare i casi in cui “consentire” l’aborto, attraverso il nulla osta di una commissione e previo l’esame della donna richiedente, insomma un imbuto di ostacoli e di tritacarne che poi diventò più semplicemente la pratica dell’aborto nel servizio sanitario nazionale da cui sono esentati i medici che intendono avvalersi dell’obiezione di coscienza. Avrebbe compiuto 90 anni un paio di giorni fa, ma Marco arrivò comunque a 86, aveva un cancro e detestava la morte che però fronteggiava col suo spirito guascone e sapeva avere paura.
La sua arma di seduzione era la disobbedienza: il bavaglio alla bocca in televisione su TeleRoma56. Accendersi una canna per farsi arrestare. Dichiararsi seguace del Mahatma Gandhi praticando la non violenza, proporre l’impossibile Partito radicale transnazionale, capire che bisognava schierarsi con Enzo Tortora e non lasciarlo ammazzare da un regime cattocomunista come in realtà avvenne, cooptare Domenico Modugno – il mitico “Mister Volare” – col suo blu dipinto nel blu quando era ormai stanco vecchio e magnifico, stare dalla parte di Leonardo Sciascia quando non era ancora di moda accusare la potente casta dei professionisti dell’antimafia. Un po’ Cristo e un po’ Robin Hood, amava i carcerati, i poveracci brutti sporchi e cattivi e – che dio lo perdoni – parlava ininterrottamente per ore come Fidel Castro. Si impossessava di ogni microfono non lo mollava più.
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