Questa non è detenzione, ma deumanizzazione
Rivolta nel carcere di Trieste dove i detenuti sono rinchiusi come bestie: feriti e un morto per overdose

Ore 20 dell’11 luglio: fa un gran caldo per chi era per le strade in città. Pensiamo a chi si ritrova rinchiuso in cella, nella casa circondariale di Trieste, che vede un livello di sovraffollamento dell’80%. Iniziano ad arrivare delle volanti della polizia. La strada via del Coroneo, zona del carcere, viene bloccata, i bus deviati e la cittadinanza ancora non coglie la gravità di quello che sta accadendo: una rivolta nel carcere.
La rivolta sarebbe stata innescata da uno screzio riguardante la gestione dei colloqui tra detenuti e familiari. Questo episodio ha scatenato la rabbia di circa 130 dei 250 detenuti, nonostante la capienza massima della struttura sia di 150 persone. La protesta si è estesa oltre le celle, coinvolgendo un’ala del carcere e il cortile interno. I detenuti hanno aperto i rubinetti dei bagni per provocare allagamenti, incendiato suppellettili, lenzuola e cartoni, gettandoli anche dalle finestre, e infine hanno assaltato l’infermeria tutti insieme. La polizia penitenziaria ha cercato di contenere la situazione, ma è stato necessario l’intervento degli agenti in tenuta antisommossa, che hanno usato lacrimogeni per riprendere il controllo.
Il bilancio: sei detenuti feriti, uno morto per overdose
Sei detenuti sono stati portati in ospedale per malori e, nelle ore successive, è stato ritrovato il corpo, privo di vita, di un quarantottenne sloveno, morto per un’overdose da metadone. Lo stesso non era classificato come soggetto tossicodipendente.
All’esterno si potevano udire le urla dei detenuti che chiedevano diritti e giustizia, e vedere il fumo proveniente dall’interno. L’intervento del magistrato di sorveglianza Maria Rosa Putrino e del direttore del carcere Graziano Puja è stato decisivo per riportare la calma. Sul posto erano presenti anche la garante comunale per i diritti dei detenuti, Elisabetta Burla, e il delegato della camera penale di Trieste, Enrico Miscia, che hanno sottolineato la tensione latente causata dal sovraffollamento, il caldo e la presenza di cimici.
Un fulmine a ciel sereno per la ridente e tranquilla città adriatica, che si è svegliata l’indomani con la notizia di questo fatto sconvolgente e che dovrebbe far interrogare tutti noi: cittadini, giornalisti, politici, istituzioni, sul fatto che le parole non servono più.
Da decenni si lamentano il sovraffollamento delle carceri, le loro condizioni igienico-sanitarie al limite, il mancato differenziamento delle pene per una detenzione umana e che veda applicato il principio costituzionalmente sancito della rieducazione della pena, i diritti dei detenuti violati, e l’assenza dello Stato che rende il tutto uno squallore istituzionale.
La soluzione è solo una: pene alternative
Sentiamo dire ad ogni ripresa che la soluzione sarà aumentare di qualche posto letto la capienza delle carceri italiane, quando sappiamo benissimo che la soluzione, seppur impopolare e difficile da sostenere pubblicamente, è quella di evitare che tanti colpevoli di reati minori finiscano in carcere, differenziando al meglio le sanzioni e utilizzando pene alternative, per consentire un ambiente meno angusto e invivibile nelle carceri e condizioni più pragmatiche per far scontare le pene a chi ha commesso reati meno gravi e può vedere una sua rieducazione con una configurazione più orientata all’esterno, non esclusi ed emarginati dalla società.
Le condizioni delle carceri migliorerebbero, consentendo anche lì di organizzare uno svolgimento dei lavori e uno scontare della pena che abbia sempre come focus la riabilitazione, e non l’accanimento o il refrain della “punizione esemplare”. Nessuno merita punizioni esemplari, tutti meritano la punizione più giusta per loro, garantendo la dignità umana di tutti.
Fino a prova contraria, quando si è in carcere si è sotto custodia dello Stato, che dovrebbe innanzitutto proteggere dalle loro fragilità le persone che hanno commesso gravi errori e delitti nella e verso la propria comunità.
Uno Stato che non protegge, che non tutela la dignità umana dei detenuti, sta da un lato venendo meno a un suo dovere istituzionale nei confronti di tutti noi e, secondariamente, ma non per importanza, sta gettando le basi per una bomba sociale pronta a esplodere nei prossimi anni.
Quando fra noi pensiamo al nostro Paese, ci guardiamo allo specchio e ci diciamo “sì dai, siamo tutto sommato una democrazia matura”. Beh, vi invito a fissarvi attentamente qualche secondo in più, a riflettere su tutte le storture che viviamo rispetto al sistema della giustizia nel suo complesso e poi vi sprono a chiedervi se, più che a una democrazia matura europea, non sembriamo forse da Sudamerica.
E dopo esserci fatti questa domanda, chiediamoci se è ancora ammissibile che questo tema non arrivi a scaldare i cuori e le menti di tutti, e che non sia in cima alle priorità civili della nostra classe politica. Forse chiedo troppo, ma è solo misurandosi con l’ostacolo che l’uomo scopre sé stesso.
© Riproduzione riservata