La carica Dap
Roberto Tartaglia è l’erede di Francesco Di Maggio, il magistrato del ‘pentitificio’

2020. Un governo debole, un guardasigilli debolissimo, un capo del Dipartimento penitenziario inesistente. Che si fa? Si mette un uomo forte al fianco di uno debole. Ecco spuntare dal cilindro del ministro di giustizia Alfonso Buonafede il nome del pubblico ministero Roberto Tartaglia, uomo forte perché proviene dalla cantéra del prode Di Matteo e perché ha partecipato al banchetto del farsesco processo “trattativa” Stato-mafia. Tartaglia viene nominato al Dap come vice di Francesco Basentini, cui il ministro non vuol rinunciare, ma che viene messo a balia perché si faccia una cultura “antimafia”, in cui evidentemente è deboluccio. Il che significa non scarcerare più nessuno che sia sfiorato dai reati di mafia, neanche i vecchi moribondi.
Chissà se tra 25 anni, al prossimo processo “trattativa” istruito dai nipotini di Di Matteo, Bonafede, Basentini e magari anche Tartaglia saranno immeritatamente ricordati come quelli che hanno scarcerato i boss per fare un favore alla mafia. Impossibile? Ma è quel che è capitato venticinque anni fa al più duro e intransigente vicepresidente del Dap, il più entusiasta applicatore del 41bis, Francesco Di Maggio.
1993. Il 29 aprile aveva votato il governo Ciampi, debole perché tecnico e destinato a segnare la fine della prima repubblica dopo nove mesi. Guardasigilli era un altro tecnico, Giovanni Conso, giurista raffinato ma inadatto a gestire la giustizia nei momenti tragici che seguirono la stagione delle stragi di mafia e il circo di tangentopoli. Alla presidenza del Dap un altro tranquillo magistrato, Alberto Capriotti. La confusione era totale, quando arrivò nella veste, solo apparente, di vice, Francesco Di Maggio, preceduto da un grande successo milanese, la resa del Talebano, quell’ Angelo Epaminonda che diventerà il primo pentito di mafia a Milano.
Il pm milanese sapeva giocare con le carceri speciali e il 41bis come su una scacchiera. Dopo il suo arrivo al Dap, ben presto ci fu un uso spropositato dei “colloqui investigativi”, incontri riservati di funzionari di polizia con singoli detenuti, senza nessun controllo di magistratura. Quelli di Di Maggio si svolgevano in totale riservatezza, in locali con vetri affumicati e porte sprangate. Dopo l’incontro il detenuto cambiava velocemente luogo e regime di detenzione, scappava quasi senza i suoi vestiti e presto conquistava la libertà.
Francesco Di Maggio costruì un vero “pentitificio”. Pure, nella storiografia di chi apparentemente ha vinto, cioè quella di Travaglio-Ingroia-Di Matteo, e anche di Tartaglia che all’epoca aveva undici anni, il duro diventa il molle, quello che – e non se ne capisce il perché – il gentiluomo Conso avrebbe collocato al Dap per scarcerare i mafiosi. Bisognerebbe conoscerla bene la storia. E magari esserci stati. Successe che, verso la fine di quell’anno, un governo agli sgoccioli, fece quel che da tempo chiedeva non la mafia, come pensano gli imberbi storiografi, ma decine di giudici di sorveglianza e cappellani carcerari, oltre che un’opinione pubblica sconvolta dai racconti sulle torture perpetrate nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Non furono rinnovati 373 casi di 41bis.
Non c’era nessun boss trai detenuti che fruirono del provvedimento, ma in gran parte reclusi che non appartenevano neanche ad associazioni mafiose ma che erano stati rastrellati e gettati nelle carceri speciali nel furore disordinato e un po’ impazzito del dopo-stragi. Una sorta di compensazione a qualche ingiustizia, insomma. Ma che è diventata la base del processo “Trattativa”.
Di Maggio non c’entrava niente in quell’iniziativa del ministro Conso. E solo la morte nel 1996 a soli 48 anni lo salverà da una gogna che lo aspettava nella passerella del processo. La sua permanenza al Dap del resto durerà poco, perché dopo lo scioglimento delle Camere e l’arrivo del governo Berlusconi, alla giustizia si troverà il ministro Alfredo Biondi e l’incompatibilità tra i due sarà subito palese. Lo scontro arriverà nell’estate, al meeting di Comunione e Liberazione. Dove Di Maggio, nell’annunciare le proprie dimissioni, lascerà una sorta di testamento al cui centro pose proprio l’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario come fondamentale.
In quaranta minuti di discorso attaccherà con forza “garantisti vecchi e nuovi” e ricorderà a proprio merito «il rapporto tra detenuti sottoposti a regime differenziato ex articolo 41 bis e numero di collaborazioni processuali in delitti di mafia importanti». Il pentitificio, insomma. E citerà a titolo di esempio proprio il pentimento di due indagati per l’assassinio di Paolo Borsellino. Uno dei due è il falso collaboratore Enzo Scarantino.
2020. Il Csm ha convalidato la vicepresidenza al Dap del pubblico ministero Tartaglia che, proprio nei giorni in cui si ha notizia che in breve tempo nelle carceri sono quadruplicati i casi di detenuti positivi al Covid-19, avrà il compito di fare il duro, di sorvegliare che qualche magistrato non disponga la liberazione di vecchi e malati. Ma sarà difficile che, essendo cresciuto nella bambagia del “processo trattativa”, possa mai raggiungere la statura di un vero repressore quale è stato Francesco Di Maggio.
© Riproduzione riservata