Roma capitale della cultura, ma solo di quella istituzionale

La vulgata ci consegna una immagine falsa di Roma come città-palude, burocratica e stagnante, storicamente provinciale (almeno fino al 1871, quando fu proclamata capitale), abitata da una umanità indolente e parassitaria (e per di più anziana: gli ultra 65enni sono il 21%, metà dei quali vivono soli). E se invece riscoprissimo la sua vocazione cosmopolita – già intravista da Montaigne nel ‘500 e rilanciata dal grande classicista Mommsen nell’800 – , la sua natura di spazio «ecumenico e universale», come ha dichiarato papa Francesco? A Roma si conserva, si produce e si consuma cultura forse più che in qualsiasi altra città del mondo, anche se i romani sono i primi a ignorare questo fatto. Esce ora un utilissimo dossier che ci offre una mappa accurata dei centri della conoscenza e della creatività. Vediamo di che si tratta.

Il gruppo Roma Ricerca Roma ha realizzato questo dossier su Roma come capitale internazionale della cultura – “Un manifesto per Roma. Città conoscenza e creatività” – ove affiora una realtà strabiliante e poco nota, fatta di quasi un centinaio di università (4 pubbliche, 24 atenei pontifici, 50 distaccamenti di università americane… un esercito di 250.000 studenti universitari!), 41 istituti di ricerca, 50 accademie estere, la più alta concentrazione a mondo di musei e siti archeologici. Ma non solo antichità: nel settore tecnologico digitale la città presenta un panorama ricco di istituti di ricerca, fiere (il Rome Maker Faire, il più importante festival di robotica in Europa, con 100.000 visitatori), scuole di impresa e la fabbrica di start up più grande di Europa (in via Marsala). Senza pensare al 70% della produzione audovisiva del nostro paese, e alle molte scuole di cinema e di teatro.

Una rete straordinaria di infrastrutture, un patrimonio unico, cresciuto sensibilmente durante le giunte Rutelli e Veltroni, ma in tempi recenti trascurato dagli amministratori e ignorato dallo stato, dalle classi dirigenti di questo paese (Roma è l’unica grande capitale europea senza statuto autonomo e senza fondi speciali). Un sintomo gravissimo di questa indifferenza, di questo disinvestimento da parte del settore pubblico, sono le mancate celebrazioni (per motivi pretestuosi) dei 150 anni di Roma Capitale. Il dossier, dopo aver accennato alla necessità di creare un Urban Center (un museo della città e della sua storia millenaria) si sofferma su due nodi funzionanti, Maxxi (nei primi 10 anni oltre 3 milioni di visitatori) e Auditorium (prima struttura culturale in Europa), poi su due nodi mancati, colpevolmente rimasti sulla carta (Parco dei Fori e Museo delle Scienze), poi sulla rete inadeguata delle biblioteche comunali e infine sul già citato ecosistema digitale.

Quello di Roma Ricerca Roma è un lavoro di ricerca puntuale, destinato a sfociare in uno sforzo progettuale e in un Manifesto per Roma, e certo documento imprescindibile per chiunque si appresti a governare la nostra città. Al documento mi sento di fare una unica, lieve obiezione, che provo ad argomentare, e che riguarda una classica questione di democrazia. Dopo pagine e pagine in cui si è parlato di un universo scintillante di hub, di coordinamenti sovra-istituzionali, di reti di collaborazione, di nodi virtuosi, di Fab Lab e Technology Transfer, etc. ci si chiede: ma alla fine chi è che produce cultura e la consuma? Il dossier mette, doverosamente l’accento, sul mondo delle istituzioni, degli enti e degli istituti, ma credo che qualsiasi “sforzo di progettualità” va ripensato in ogni direzione, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Le istituzioni e le realtà di base devono incontrarsi a metà strada.

In una celebre puntata dei Simpson l’archistar Frank Gehry è incaricato dal sindaco di Springfield di disegnare il nuovo auditorium. L’edificio viene costruito, con la tipica geometria sghemba delle opere di Gehry, ma nessuno degli abitanti di Springfield ci va perché della musica classica non gli importa nulla! Lo scintillante auditorium resta in uno stato di abbandono e dopo un anno viene trasformato in carcere! Si obietterà: ma il nostro Auditorium è secondo al mondo, dopo il Lincoln Center, per numero di visitatori, altro che disertato! Vero, però nella vita della città interessa sempre e solo una fetta di pubblico, consistente e al contempo minoritaria: la middle class culturale, ansiosa di essere aggiornata su tutto, affamata di mode e di eventi, che nel nostro pianeta consuma febbrilmente (e bulimicamente) manifestazioni di ogni tipo. Magari il pubblico dell’Auditorium una volta lo spostiamo – sempre quello! – in un teatro “di cintura” (a Tor Bella Monaca), per fare un po’ di esotismo culturale, ma la sostanza non cambia.

A me pare insomma che dal punto di vista culturale Roma, nonostante tutto, non sia abbastanza inclusiva né capace di fare una proposta che si rivolga davvero alla maggioranza della popolazione. E non a caso il numero delle 39 biblioteche di base si diluisce sempre più spostandosi in periferia, proprio lì dove abita la stragrande maggioranza dei romani… (il documento parla di “governance dall’alto” e di mancanza di un “pensiero innovativo”). Come e dove si forma la domanda di cultura? Di una “rete fittissima di autorganizzazione dal basso” si parla nel dossier, ma un po’ fuggevolmente. Eppure è l’altro nodo della questione, e da qui occorre ripartire, dopo aver portato i Lincei al popolo. La manifestazione “Enzimi”, pensata da Luca Bergamo una ventina d anni fa intendeva appunto intercettare tendenze e fermenti della periferia, dare visibilità e circolazione ai giovani talenti. Anche in una metropoli la cultura deve essere prodotta dalle persone nei luoghi dove abitano. Bisognerebbe cioè valorizzare non tanto e solo il patrimonio culturale istituzionale quanto il tessuto civico – già esistente nella città! – formato da organismi di base, esperienze di autogoverno, forme di cittadinanza attiva, sperimentazioni dal basso, artisti di strada (la street art sta diventando anche una moda popolare). In questa direzione vanno tutte quelle iniziative che pure il dossier segnala: politiche pubbliche che non tanto “impongano” certi contenuti culturali quanto offrano spazi adeguati per sperimentare e creare cultura (appunto: “attrarre i giovani creativi, fare futuro”).

Penso al monito di Calvino, nelle Città invisibili: se abitiamo nell’inferno due sono le possibilità, o far finta che non esista o dare spazio e visibilità a tutto ciò che – pur all’inferno – non è inferno. Pensiamo a un Porto Alegre della cultura partecipata! Dopo il censimento delle realtà istituzionali occorre adesso il censimento – assai più complicato – di questo sciame – vitalissimo, disperso, effimero – di realtà di base, particolaristiche, sparse per il territorio. Il “pensiero innovativo” non è prodotto dalle istituzioni, le quali devono limitarsi a crearne le condizioni e a assicurarne gli strumenti.