In alcuni Stati degli Usa sono diventati di moda i “covid party”: ragazzi e ragazze che hanno contratto il virus si ritrovano senza alcuna precauzione insieme a molti altri festosamente ansiosi di beccarselo per diventare immuni – ciascuno versa una somma e il primo che ha la fortuna di scoprirsi positivo esibisce il certificato medico aggiudicandosi l’intera posta. Lo facevano i genitori che portavano i bambini a prendersi la varicella, per togliersi il pensiero; ma il covid-19 è leggermente più spietato, un trentenne in Texas ci è morto. Si cominciano a scorgere, nell’Occidente sviluppato, i risultati di questa situazione che non dà l’impressione di risolversi a breve; tra lockdown parziali, seconde ondate previste e sfalsate, spensierati passatempi estivi, vaccini promessi ma ancora lontani, incertezze per l’autunno e l’inverno, tutto è rinviato a un messianico 2021. Ma la gente sta sbroccando, non è più abituata al peso della repressione, la valvola del quotidiano rischia di saltare; ognuno sente il gravame di tutto il mondo sulle proprie spalle (anche questa è globalizzazione), quando è troppo è troppo, pietà e solidarietà sono parole difficili (per non parlare degli atti conseguenti), ci sono più ombre nella nostra psiche di quanto civiltà vorrebbe, il benessere si ingorga in un imbuto di non-detto. Le masse non reggono i tempi lunghi.

I tempi lunghi sono invece il terreno privilegiato per il romanzo, che ha bisogno di fermentare, di lasciar maturare i fantasmi. Perché una trama prenda forma, perché i personaggi si modellino nel conflitto, ci vuole un prima e un dopo, l’emergenza necessita di essere attraversata. Per questo, per ora, i testi letterari che hanno a oggetto il covid-19 sono costruiti sullo schema del diario, dell’appunto scritto a botta calda dall’autore che dice io. Perfino il Quaderno grigio del catalano Josep Pla, forse il miglior documento letterario sull’influenza spagnola di un secolo fa, si presenta come una serie di riflessioni buttate giù giorno per giorno, anche se poi ci ha lavorato anni prima di pubblicarlo. Da noi, ora, il primo a uscire è stato Nel contagio di Paolo Giordano: un instant book einaudiano nato da un articolo sul Corriere, apprezzabile e benemerito perché nel momento del panico faceva prevalere le ragioni dell’illuminismo, del calcolo matematico e statistico, della riflessione sui vari livelli di responsabilità a cui la pandemia ci metteva di fronte, invitandoci a una civile dose di autocritica. E di pazienza.

Da qualche giorno è in libreria, edito da Rizzoli, un testo che sembra l’anti-Giordano: un diario rabbioso, visionario, violentemente non-giornalistico («dietro la fronte non c’è più il pensiero, ma la febbre»). L’autore è Giuseppe Genna, il titolo sarcastico è Reality, con un sottotitolo tra referenziale e metafisico, Cosa è successo. Dai primi di febbraio ai primi di maggio, Genna si è rifiutato di “restare a casa”; anzi, si è mosso freneticamente, rischiando multe per la mancanza di autocertificazioni (ma contando probabilmente su qualche lasciapassare ufficiale per l’ingresso in alcune zone sensibili); in una Milano considerata il centro virale del mondo, e in una Bergamo ferita, ha frequentato i luoghi della moda e del sesso fluido, della criminalità e del commercio – è andato in Comune e in aeroporto, ha visto i cimiteri, i forni crematori e le terapie intensive, le strade deserte e il bosco della droga a Rogoredo.

Non si è tirato indietro di fronte a nulla, pieno di amore inutile, di ribellione disperata e di sensi di colpa; alcuni ritratti sono quasi insopportabili, come quello dell’anziano che assiste in casa, senza l’aiuto di nessuna struttura sanitaria, la moglie morente («ghe la fu minga a respiràa adasi», «non ce la faccio a respirare adagio»). Questa frenesia si paga: e Genna paga il suo tributo di enfasi eccessiva, di ambizione epica, di profetismo biblico. La scrittura è sempre un po’ sopra le righe, più poetica che prosastica; cita Montale, Yeats, Mario Benedetti (il poeta friulano morto a marzo con il covid), ricorda il Testori degli Angeli dello sterminio. Ma in compenso tocca qualcosa che sta al di là del giornalismo e della ragione, oltre la barriera delle nostre autodifese democratiche; tocca un’incrinatura nel nostro essere profondo, un desiderio latente del nulla dietro la paura della morte, uno slancio delirante verso la rivoluzione impossibile e una giustizia da Giudizio Finale; tutte cose che ci tormenteranno durante la ripresa sociale ed economica, con tanta più forza quanto meno sapremo dar loro un nome.
«Gli psicotici hanno qualcosa da dire alla città», scrive Genna, e un po’ oltre: «i bipolari componevano un esercito della salvezza». Sembra che abbia letto (ma non credo) il libro sul covid di Chiara Gamberale, il feltrinelliano Come il mare in un bicchiere.

La Gamberale ci parla di una associazione di volontari formatasi per aiutare pazienti psichiatrici, senza che il discrimine tra gli uni e gli altri sia particolarmente marcato; e dice di come i “bipolari”, troppo avvezzi agli inferni della loro mente, accolgano questo tempo anomalo con una specie di sollievo. Fino alla frase autobiografica e dolorosa: «ho paura che, quando guarirà il mondo, tornerò ad ammalarmi io». Poi c’è sua figlia, che non a caso ha chiamato Vita, e ci sono le preoccupazioni dolci di non farle sentire troppo lo strappo dalla normalità, inventando riti che funzionino da cuscinetto – quale cicatrice resterà, subdola, nell’anima di una bambina di tre anni che per adesso appare illesa ? Il presente pullula di “storie del covid”, la televisione già ce ne sta presentando alcune – immediate, commoventi, con la morale incorporata. Ma solo quando un autore, avendo assorbito nudo i terremoti del proprio inconscio, riuscirà a guardare da una riva sicura i traumi e gli sconvolgimenti privati e collettivi, solo quando il covid sarà diventato parte di un processo di cambiamento (e di cambiamenti) riconoscibile, solo allora si aprirà lo spazio per un romanzo che possa contenerlo. Per personaggi contraddittori, sorprendenti, eretici. Noi stiamo sbroccando, ma il romanzo non ha fretta.