Pochi ruoli, nel calcio, accendono passioni intense come quello del centravanti. E se tante cose sono cambiate negli anni, via via sostituendosi al centrattacco di vecchio corso altre tipologie di attaccanti, tatticamente e anche morfologicamente differenti, il numero nove rimane un punto fermo del nostro immaginario collettivo. Il nove è quello che sgomita, sguscia, brucia il tempo alla difesa avversaria e – per gloria ma prima ancora ragion d’essere – la butta dentro. Non dovrebbe far altro, si dice, come se questo fosse poco.

Negli anni Ottanta e Novanta il movimento calcistico italiano ha dominato la scena mondiale, forte di quello che senza dubbio era “il campionato più bello del mondo”. Ci giocavano tutti i migliori, ancor più di quanto accada oggi in Premier League o nella Liga spagnola. Molti calciatori italiani erano allora essi stessi tra quei migliori, nei rispettivi ruoli: dai portieri alla difesa, al centrocampo, fino ai cosiddetti fantasisti, l’Italia ha prodotto per lungo tempo giocatori di valore assoluto. Ma se pensiamo proprio agli Ottanta, al periodo che corre dall’estate del 1980 fino all’estate del 1990 – da un europeo organizzato in Italia all’indomani dello scandalo del Calcioscommesse, a un mondiale organizzato in Italia alla vigilia di Tangentopoli – quello che rimane in testa e nel cuore sono proprio i centravanti, i numeri nove. Che tirano e la buttano dentro.

Prima c’è stato Paolo Rossi, l’eroe di Spagna, principe risorto e diventato re nel momento più difficile. La squalifica e il calvario giudiziario che aveva preceduto il mondiale di Spagna lo avevano segnato profondamente. In una intervista gli sentii dire una cosa poco scontata e forse proprio per questo particolarmente bella: “Appena vinto il mondiale la prima cosa che ho provato non era tanto la felicità, ma il rimpianto che fosse già finito”. Pochi anni dopo, quando le ginocchia lo avevano relegato al ruolo di comprimario l’Italia aveva già trovato l’erede designato, Gianluca Vialli.

Veloce e potente, meno finalizzatore e più attaccante di manovra, Vialli non ha vinto titoli con la nazionale ma l’ha trascinata a un europeo a suon di gol bellissimi, di colpi di testa e legnate sotto la traversa che ricordavano un altro nove, forse il più grande: Gigi Riva. E come Riva, mai banale e mai ruffiano, Vialli attraversò quel pezzo di decennio da leader, pur giocando – e vincendo, sempre come Riva – con una squadra di club cosiddetta minore.
Il mondiale del ’90 doveva essere quello della sua consacrazione, ma ci arrivò fuori condizione. Proprio mentre era fermo ai box si alzò improvvisa nel cielo di un’estate italiana la stella di Salvatore Schillaci, detto Totò, centravanti di una Juve non ancora tornata grande, in cui era arrivato a venticinque anni, a suon di gol, dopo una lunga gavetta in serie B.

Ragazzo palermitano cresciuto nel CEP e affamato di rivincita, di quel mondiale Schillaci fu l’eroe, come Rossi era stato l’eroe di Spagna. Segnò anche lo stesso numero di reti, sei, in un crescendo che infiammò il paese intero, ma non servirono ad andare oltre un onorevole terzo posto. La parabola di Totò non finì con quel torneo, ma certamente il suo apogeo era passato in quei giorni di gol a raffica e delirio collettivo. Nel 2020, a trent’anni dal mondiale italiano e dalle notti magiche è morto Rossi. Vialli è mancato all’alba dell’anno passato. Totò se n’è andato oggi.

Qualche generazione di italiani – tra cui la mia – ha perso in poco tempo tutti i numeri nove di un’epoca probabilmente irripetibile per intensità ed entusiasmo popolare.
Rossi, Vialli, Schillaci. Fa davvero effetto pensare che non ci siano più. Erano tutti ancora giovani, e così resteranno, nei nostri ricordi indistruttibili di bambini e di ragazzi.

Gabriele Molinari

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