Le ondate di emotività che seguono certi fatti di cronaca, pur risultando comprensibili, hanno tutte un immancabile punto di caduta: la richiesta di “insegnare nelle scuole” qualche valore o comportamento che dovrebbe evitare il ripetersi di simili episodi. Agli insegnanti viene chiesto periodicamente di impartire l’educazione civica, l’educazione affettiva, poi l’educazione ambientale, stradale, finanziaria e così via. Il ragionamento che giustifica queste pretese, a un primo sguardo, è innocuo: “Educando a certi valori i ragazzi di oggi, li vedremo rispettati dagli adulti di domani”.

È un ragionamento velleitario per più motivi – ad esempio, i ragazzi reagiscono spesso provando odio e rigetto contro i principi che si cerca di inculcare loro, e in ogni caso la generazione degli attuali giovani costituirà solo una minima frazione degli adulti italiani per molti decenni. Ma soprattutto si tratta di riflessioni che tradiscono la facile illusione, tipica delle società chiuse, di poter risolvere un problema sociale forgiando le menti delle persone secondo i valori che si ritengono più funzionali a risolverlo. Sorge sempre, insomma, il sospetto che i promotori di tutte queste “educazioni”, se potessero, le farebbero impartire dalle autorità non solo ai giovani, ma anche agli adulti. Se si limitano a pretenderle nelle scuole, è solo perché le scuole sono rimaste l’ultimo fortino in cui le autorità possono ancora obbligare qualche cittadino a stare fermo su una sedia, potendo potenzialmente perseguire opera di condizionamento.

L’impianto della scuola in una società aperta dovrebbe essere però l’esatto opposto: il mestiere dell’insegnante consiste soprattutto nel farsi da parte, nel rimuovere con fatica i propri gusti e le proprie opinioni, nel rinunciare con fatica alla tentazione di fare da guida, da amico o da genitore sostitutivo degli alunni. Solo così si può favorire l’incontro autonomo con ciò che di più grande è stato pensato e creato nel passato, promuovendo lo sviluppo del senso critico, il piacere per il metodo sperimentale, la capacità di ogni studente di scegliersi i suoi strumenti – con l’auspicio che siano coerenti e sensati – al fine di interpretare il mondo e prendere le scelte che più contano. Nelle scuole di una società aperta non si “educa a”, ma si “educa per”: innumerevoli studi confermano che la mente umana dà il meglio di sé quando tesse libere correlazioni tra esperienze distanti, quando riattinge a vecchie conoscenze di fronte a nuovi casi imprevisti, e non nel momento in cui applica supinamente un manuale di istruzioni (tanto più se si tratta di codici imbevuti di retaggi ideologici e letture semplicistiche).

L’azione degli insegnanti, in una società aperta, risulta decisiva quando riesce a preparare il terreno migliore in cui il carattere degli alunni possa germogliare. La scuola dovrebbe perciò preoccuparsi di insegnare ad apprendere, più che di trasferire i contenuti da apprendere: questi hanno valore soprattutto perché nutrono incessantemente la curiosità, che a sua volta è la molla per sviluppare creatività, struttura mentale, memoria e metodo. Inutile osservare che, con il catechismo educativo indotto dalle emozioni per la cronaca nera, non si ottiene niente di tutto questo. L’essere umano non è programmabile a fin di bene da paterni e premurosi governanti. La missione delle scuole, in una società aperta, è essere il luogo della ricerca delle opportunità che il mondo ha da offrire, nel solco del rispetto della libertà e della fiducia nelle potenzialità della persona.

Emanuele Pinelli e Antonio Bompani

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