La vicenda di Luigi Cesaro ripropone almeno due annose questioni: l’una attiene alla permanenza, ormai del tutto consolidata, con avallo della Corti europee, della fattispecie di creazione giurisprudenziale definita “concorso esterno in associazione mafiosa”; l’altra, attuale anche alla luce della campagna referendaria in atto, riguarda l’uso (o, forse, l’abuso) delle misure cautelari personali che spesso si consuma in Italia.

Il concorso esterno in associazione mafiosa ha ormai assunto una sua stabilità nel nostro ordinamento e inascoltati sono rimasti i richiami al legislatore perché disciplinasse la materia. Non si nega l’opportunità che si disciplinino zone d’ombra che altrimenti resterebbero prive di sanzione, ma è il caso di ribadire come soltanto una legge possa e debba provvedervi e non un’interpretazione multiforme e mutevole rimessa al libero apprezzamento di chi giudica. E invece è accaduto che, in un Paese dove vige il criterio di stretta legalità, si è introdotto un reato di mera creazione giurisprudenziale. La circostanza che già di per sé appare allarmante, lo è ancora di più se si riguardano gli ultimi venti anni di storia italiana e si esamina il ruolo vicario che la magistratura ha assunto rispetto alla politica. Le sorti delle istituzioni sono condizionate da inchieste a orologeria, le norme sono create dalla giurisprudenza e i media sono invasi da “magistrati superstar” che impazzano e arringano folle che invocano vendette esemplari.

Quanto alla richiesta di arresto di Cesaro, la norma di riferimento è l’articolo 275 del codice di procedura penale che disciplina i criteri di scelta delle misure cautelari. A una prima lettura, sembrerebbe non esserci spazio per la concessione degli arresti domiciliari in caso di contestazione di concorso nel reato di cui all’articolo 416 bis del codice penale; tuttavia, sin dal 2015, si sono succeduti interventi della Corte Costituzionale con cui si è chiarito come, nel caso del concorso esterno, a chi sia colpito da simile contestazione non possa applicarsi l’automatismo tra contestazione e custodia in carcere che, invece, riguarda i veri e propri concorrenti nel reato previsto dall’articolo 416 bis. E questo perché, nel caso del concorso esterno, mancano l’indispensabile intraneità e la costante condivisione del programma, del modus vivendi, degli scopi, degli obiettivi e della vita dell’associazione. Per questa strada si espande la discrezionalità, certo vincolata, del giudice nel valutare, in ragione del caso concreto, se le esigenze cautelari possano essere soddisfatte anche con l’adozione di altre misure. E cioè, nel caso di specie, degli arresti domiciliari.

Mi chiedo: non era proprio possibile disporre altro rispetto agli arresti domiciliari? Possibile che la libertà valga così poco e che la tendenza sia sempre e comunque quella a sacrificare la libertà altrui? Pare quasi che in Italia si ragioni nei seguenti termini: è giunta notizia che un reato è stato commesso; arrestiamoli tutti; poi verifichiamo cosa è successo e, se è vero che è successo, chi è stato e, soprattutto, chi ha commesso cosa e perché. È in atto da tempo una disumanizzazione del processo e del processo penale in particolare. Il luogo del rito, dove lo Stato celebra la sua capacità di comporre i conflitti, anche lasciando che il tempo lenisca gli affanni, è diventato il ring dove, ad armi impari, si affrontano due contendenti: i magistrati e il cittadino spesso inerme, molte volte innocente, certamente presunto colpevole. Ma che razza di giustizia è questa?