Il conflitto
Safieddine è morto ma Hezbollah rimane una minaccia. Su Haifa il peggior attacco dall’inizio della guerra
Israele sa bene che la guerra in Libano è qualcosa di molto complesso. E lo dimostra il fatto che Hezbollah, nonostante la decapitazione del movimento, l’uccisione anche del presunto successore di Hassan Nasrallah, Hashem Safieddine, e i bombardamenti a tappetto delle Israel defense forces, continua a essere una minaccia per tutto il nord dello Stato ebraico. Ieri, l’ennesima pioggia di razzi partiti dal Libano del sud si è diretta su Haifa, con il peggiore attacco contro la città israeliana dall’inizio della guerra (85 missili di cui alcune schegge sono cadute nella periferia del centro costiero).
Tre dossier aperti
E il Partito di Dio ha tre dossier aperti decisivi sul proprio futuro. Il primo, capire chi lo guiderà. Il secondo, comprendere come gestire un’alleanza con l’Iran sempre più difficile da rendere operativa visto che Israele sta interrompendo i rifornimenti militari e il supporto tattico dei Pasdaran. Il terzo, cercare di rafforzare i rapporti con le altre fazioni del Paese dei cedri per evitare che questo venga inghiottito da una guerra che isoli definitivamente un Hezbollah indebolito a livello politico e militare.
Lo stop alle ostilità
A questo proposito, ieri il vice leader del partito, Naim Qassem, uno degli ultimi rimasti delle alte sfere del movimento, ha detto di sostenere il lavoro del presidente del Parlamento, Nabih Berri, per raggiungere un cessate il fuoco. Ed è un segnale importante non solo per l’apertura nei riguardi di Berri, ma anche perché Qassem, per la prima volta, non ha collegato esplicitamente lo stop alle ostilità in Libano con quello nella Striscia di Gaza. “Se il nemico continua la sua guerra, allora a decidere sarà il campo di battaglia “, ha continuato il numero due di Nasrallah. Ma il messaggio lanciato dai vertici di Hezbollah resta particolarmente importante. Un annuncio che però le Israel defense forces non sembrano al momento avere colto, visto che in questi giorni lo Stato ebraico ha aumentato il suo assedio nei confronti della milizia filoiraniana. Non solo con i bombardamenti aerei, sempre più intensi sia nel sud del Libano che a Beirut e nella Valle della Beqaa, ma anche con un dispiegamento di un numero sempre maggiore di truppe. Dopo che lunedì le forze di difesa israeliane avevano annunciato l’ingresso nel sud del Paese della 91a divisione regionale “Galilea”, ieri è stato comunicato lo schieramento di un’altra divisione, la 146ma, portando così il numero dei soldati presenti in Libano intorno alle 15mila unità. Per molti esperti, questo è uno dei segnali più indicativi del fatto che l’operazione di terra in Libano, descritta dall’Idf sempre come qualcosa di “limitato” o di “mirato” potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto più ampio.
Fiducia negli israeliani molto bassa
La tensione si respira in tutto il Paese, come suggerito anche dal tragico incidente che ha coinvolto la troupe del Tg3 vicino Sidone in cui è morto l’autista. E questa crisi preoccupa non solo Beirut e le sue forze armate, ma anche Unifil (schierata proprio nell’area del conflitto) e anche la comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti. Da Washington, Joe Biden appare sempre meno convinto delle mosse di Benjamin Netanyahu. Come ha scritto Axios, la Casa Bianca ha assunto una posizione molto diffidente riguardo le mosse del suo maggiore alleato mediorientale. E se questo è stato chiaro con i vari raid che hanno coinvolto Hezbollah e la marcia indietro di Bibi sulla possibile tregua, quello che preoccupa gli Usa è anche (se non soprattutto) il piano di ritorsione dello Stato ebraico nei riguardi dell’Iran. “La nostra fiducia negli israeliani è molto bassa in questo momento e per una buona ragione”, ha affermato al portale un funzionario.
Tutto passa nella mani di Netanyahu
E tutto ora passa nelle mani di Netanyahu, che ieri ha sera ha convocato i ministri nel quartier generale dell’Idf a Tel Aviv. L’obiettivo israeliano è quello di infliggere un duro colpo alla Repubblica islamica. E sul tavolo ci sono varie opzioni: i siti militari, gli impianti petroliferi o i centri nevralgici del programma nucleare di Teheran.
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