Sui temi del lavoro ultimamente mi sento conservatore, anche qui sul Riformista. La grande tradizione sindacale italiana (Cgil compresa) non ha mai ritenuto che la legge fosse lo strumento migliore per definire le condizioni puntuali (retributive, in primis) e questo per tante buone ragioni sulle quali fino a qualche tempo fa pareva esserci ampio consenso. La legge è uno strumento rigido, poco capace di interpretare le mille differenze che insistono nei diversi settori produttivi, nei diversi territori. La legge non è espressione della libertà negoziale di chi lavora e di chi fa impresa, ma arriva da fuori, è un fattore esogeno e rischia di generare distorsioni. La legge non si aggiorna velocemente, come invece possono fare le regole contrattate.

Quello legislativo parrebbe dunque uno strumento meno efficiente per stabilire regole puntuali che disciplinino il lavoro. Ma in ballo c’è anche altro. Ci sono le relazioni industriali che finora hanno costruito il mondo del lavoro nel nostro Paese e delle quali la contrattazione collettiva è l’espressione più rilevante. Ora: si dice che la contrattazione collettiva sia in crisi, che ci sono contratti che non vengono rinnovati da anni, che sindacati e associazioni datoriali sono via via meno rappresentativi. Diciamo innanzitutto che, per numero di iscritti, il sindacato confederale italiano (Cgil, Cisl e Uil) primeggia in Europa e che le associazioni datoriali esprimono una rappresentatività forte, tanto che la contrattazione collettiva copre oltre il 90% delle lavoratrici e dei lavoratori.

E se anche ammettessimo una crisi della rappresentatività (l’attivismo, la militanza, la capacità di incidere…), lascia scettici l’idea di sottrarre materia di contrattazione al sistema delle relazioni industriali, decidendo per legge. Perché così la crisi rischia di acuirsi. Impoverito l’esercizio della libera contrattazione, lavoratori e imprese fisseranno lo sguardo sul legislatore, che potrebbe diventare il mediatore del dialogo sociale fino forse a surrogarlo, riducendo il ruolo di sindacati e associazioni di rappresentanza di impresa a semplice lobby. Sappiamo che il collateralismo del sindacato alla politica non è un buon modo di svolgere il dialogo sociale, il rischio è l’asservimento ad obiettivi di consenso.

È per questo che, al di là delle polarizzazioni della politica, si dovrebbe convergere sull’opportunità di rilanciare le relazioni industriali, tanto più se ne riconosciamo la crisi almeno relativa. Come? Un buon punto di partenza è quello che muove dalla Cisl che con una proposta di legge di iniziativa popolare propone un sostanziale cambio di paradigma sul modo di pensare i rapporti tra lavoratori e impresa. La partecipazione dei lavoratori, declinata dalla Cisl secondo forme differenti (gestionale, finanziaria, consultiva, organizzativa) potrebbe spingere le relazioni industriali a evolvere dall’antagonismo alla collaborazione. Alla corresponsabilità, in vista di obiettivi comuni. La storia del Novecento ci ha abituati a pensare che capitale e lavoro stiano necessariamente dalla parte opposta della barricata. Per quanto possiamo esserci abituati, è l’attualità a rendere controintuitiva tale impostazione.

Oggi sono di più le partite che vedono affiancati gli interessi di lavoratori e imprenditori che quelle che vedono una rigida contrapposizione di ruoli. Penso alla sfida della formazione continua, che rafforza i profili individuali sul mercato del lavoro e al contempo favorisce l’aumento di competitività delle aziende. Penso alla quantità di risorse per la formazione che ancor oggi non vengono spese (dai fondi europei a quelli interprofessionali), ma che sarebbe interesse comune spendere (e spendere bene!). Penso anche alla promozione di una cultura comune in materia di salute e sicurezza sul lavoro che, quando manca, mette a rischio tanto i lavoratori quanto le imprese. Penso al mismatch che colpisce oggi un’assunzione su due, costituendo un fattore di limite difficile da aggirare e sul quale è necessario agire a partire dal sistema scolastico e universitario, dal suo rapporto con il mondo del lavoro e dal rilancio dell’istruzione tecnica, delle esperienze professionalizzanti.

Anche il tema dello sviluppo del welfare aziendale vede lavoratori e imprese esprimere interessi convergenti: gli uni promuovono una più efficace risposta ai bisogni (flessibilità, servizi, etc), le altre comprendono che il welfare è strumento di fidelizzazione del personale e valorizzazione del lavoro. In realtà, anche le questioni retributive, almeno in parte, vedono una coincidenza di interessi tra impresa e lavoro. Se gli stipendi degli italiani sono fermi al palo da decenni, come attesta l’Ocse, è a causa del blocco della produttività che frena le imprese, riducendo i margini d’azione della contrattazione collettiva.

Mi chiedo se invece di limitarsi a tacciare di parzialità il Cnel per aver bocciato la proposta di salario minimo a nove euro, le opposizioni, che intorno a tale proposta si sono riunite, non farebbero meglio a prendere sul serio il Cnel e lanciare la sfida alla maggioranza: trovare un terreno comune per rilanciare la contrattazione collettiva. Ciò non implicherebbe in alcun modo la sconfessione del salario minimo da parte di chi finora l’ha sostenuto, ma immediatamente metterebbe alle corde la maggioranza, chiedendo di impegnarsi davvero sui temi del lavoro. Sarebbe un’operazione di responsabilità politica.

Gian Luca Galletti

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Presidente UCID