L'editoriale
Sale il debito, scende il rating: senza riforme si affonda
Martedì scorso l’agenzia Fitch ha declassato il rating del debito sovrano dell’Italia, portandolo a un gradino soltanto sopra il livello “non investment”, ovvero “spazzatura”. A pesare sulla decisione circa la sostenibilità del nostro debito ha contribuito l’aumento pesante del rapporto debito/Pil previsto per quest’anno, pari a quasi il 160,0%, un livello superiore a quello che causò la crisi greca, culminata, come sappiamo, nel processo di ristrutturazione del debito di Atene. Venerdì prossimo toccherà alle agenzie Moody’s e Dbrs esprimere la loro valutazione sul rating.
È bene mettere in conto altri possibili declassamenti, considerando che, nel frattempo, i dati macro sull’Italia e l’Eurozona sono stati pesantemente negativi. A essere declassato non è stato soltanto il debito pubblico, ma anche il sistema bancario che, purtroppo per noi, è pieno zeppo di Buoni del Tesoro Pluriennali, i quali, essendo stati sottoposti a downgrade, hanno comportato un peggioramento della qualità degli attivi dei nostri istituti di credito. I quali istituti si trovano nella situazione di essere coloro che dovrebbero, almeno nel disegno del Governo che sottende il Decreto Liquidità, risolvere il problema della crisi di disponibilità di risorse finanziarie che sta colpendo le imprese che hanno dovuto chiudere per via della crisi e che ora si ritrovano senza risorse per proseguire la loro attività. Come faranno degli istituti di credito declassati ad aumentare gli affidamenti erogati a delle aziende altrettanto declassate dalle agenzie di rating è un vero mistero.
In assenza di trasferimenti a fondo perduto (sarebbe meglio dire a titolo di risarcimento) alle imprese da parte dello Stato, la capacità delle aziende di uscire dal credit crunch si basa sulla scommessa che le (insufficienti) garanzie statali stanziate dal Decreto Liquidità siano sufficienti a mettere in moto un processo virtuoso di erogazione del credito da parte del sistema bancario senza precedenti. Noi abbiamo qualche dubbio sul fatto che questo possa avverarsi e quindi rimettere in moto l’economia italiana. Ma non è solo il problema che l’Italia ha con le agenzie di rating a gettare più di un dubbio sulla capacità di questo Governo di saper affrontare la situazione.
A preoccupare è anche la totale assenza di strategia sul futuro, che avrebbe dovuto essere inserita nel Def (Documento di economia e finanza) appena presentato alle Camere e dallo scostamento del deficit, ieri approvati dalla Camera. Def e discostamento che presentano valori a nostro avviso assolutamente insufficienti come sequenza (Def) o inadeguati come quantità (discostamento) per far fronte in maniera efficace alla dimensione e ai tempi della crisi prodotta dalla pandemia. Il ministro Gualtieri, infatti, ci ha relazionato sul fatto che ci sono 155 miliardi di risorse a disposizione. Peccato che quel valore si riferisca unicamente al saldo netto da finanziare, che non è il deficit come normalmente lo si intende, misurato dal saldo chiamato “indebitamento netto”, e che poi è quello che l’Europa prende in considerazione per calcolare il rapporto deficit/Pil. Se si usa il saldo dell’indebitamento netto, ecco che lo scostamento scende a 55 miliardi.
Parimenti, i 25 miliardi del Cura Italia, l’altro decreto appena approvato, sono in realtà poco meno di 20, per un totale di 75 miliardi. Per non parlare del fatto che il Decreto Liquidità è stato emanato sostanzialmente senza copertura, dal momento che questa è stata formalizzata (da poche ore) solo con l’approvazione del discostamento, con i 30 miliardi per la Sace, in termini di garanzie non standardizzate, 30 miliardi contenuti unicamente nel saldo netto da finanziare. Facciamo questo complesso ragionamento solo per significare la complessità dei conti ma anche la loro sostanziale non trasparenza e questo non è un bene: perché l’Italia non ha bisogno di trucchi e di imbrogli contabili, ma solo e unicamente della verità.
Come più volte da noi sostenuto, non bastano 75 miliardi per uscire dalla crisi. Ne occorrono ben più di 100, secondo quella politica economica nota come “front load”, che suggerisce di concentrare tempestivamente tutto il piano di intervento nell’immediato, nell’esatto momento in cui serve, per poi ritornare sul sentiero virtuoso della riduzione del debito pubblico e del miglioramento dei conti, una volta passata la crisi. Seguendo l’orientamento delle politiche di front loading, come la letteratura economica suggerisce, il Governo avrebbe dovuto mettere a disposizione subito più di 100 miliardi, per portare il deficit 2020 a circa il 12,0% del Pil, anziché al 10,0% come previsto nel Def.
Due punti percentuali in più quest’anno da recuperare poi l’anno prossimo quando, anziché essere pari a quasi il 6,0% del Pil, tale deficit dovrà essere ridotto a circa il 3,0%, in maniera da farlo convergere verso i parametri previsti dal trattato di Maastricht, che probabilmente già dall’anno prossimo dovrà essere nuovamente rispettato. Una condizione questa possibile, grazie all’aumento del Pil generato dalla politica di front load. E anche quei 100 o più miliardi domestici non basterebbero comunque, perché dovranno essere, in ogni caso, accompagnati dalle risorse che l’Unione Europea dovrebbe stanziare attraverso il piano da oltre 2.000 miliardi basato sui 4 pilastri finanziari (Mes, Bei, Sure e Recovery Fund), dal quale all’Italia spetterebbero circa 200 miliardi, tra “grants” e “loans”, sperando che siano più i secondi che i primi.
Ovviamente il condizionale è d’obbligo, perché di quel piano, finora, i dettagli non sono stati resi noti, quanto a tipologia di risorse e modalità di erogazione delle stesse, e sul piatto non è stato ancora messo un solo euro cash. E, soprattutto, occorre dire una cosa: a fronte di tante centinaia di miliardi domestici ed europei, non abbiamo ancora capito dal Governo per fare che cosa. Nel Def, infatti, brilla per la sua assenza il Piano Nazionale delle Riforme, ovvero il capitolo fondamentale del documento di programmazione che il Governo non ha voluto scrivere. Poco conta che le linee guida dell’Unione ne consentissero il rinvio di un mese, in attesa del pacchetto europeo. Era l’Italia che ne aveva bisogno per la sua credibilità, verso l’Europa, verso i mercati e, soprattutto, verso gli italiani. Solo il Pnr avrebbe garantito, infatti, un’idea di futuro da dare a questo Paese: quale fisco? Quale giustizia? Quale mercato del lavoro? Quale burocrazia? Quali infrastrutture? Quale welfare e sanità? Nulla il Governo ha voluto dire colpevolmente al riguardo.
Noi avevamo più volte chiesto anche su questo all’esecutivo di anticipare la Legge di Bilancio per il 2021 a giugno, in maniera da definire sin da subito l’impatto e i saldi della manovra. Così da chiudere nel più breve tempo possibile la fase emergenziale e mettere in sicurezza il 2021. Così come avevamo chiesto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, per quanto riguarda il processo di negoziazione e approvazione del maxi piano europeo, di coinvolgere il più possibile il Parlamento e le opposizioni, chiedendo ai presidenti delle Camere di fruire di una vera e propria sessione di bilancio ad hoc, in maniera tale da coinvolgere non solo il Parlamento, ma tutte le maggiori istituzioni e forze economiche e sociali normalmente preposte ad effettuare analisi e osservazioni (Corte dei Conti, Upb, Banca d’Italia, Confindustria, sindacati, etc.), anziché affidarsi a inutili e costosi consulenti, che sono riusciti soltanto a proporre aberranti soluzioni, come quella della sovietizzazione dell’industria italiana, l’ultima cosa della quale l’Italia ha bisogno.
Per quanto poco simpatiche, e in questo momento francamente fuori dal mondo, le agenzie di rating hanno dimostrato ancora una volta quanto sosteniamo da tempo: l’Europa perdona, i mercati finanziari no. Prendere decisioni giuste, credibili, lungimiranti e condivise, in questo momento, potrebbe essere l’occasione giusta per ridare fiducia al Paese. Prendere quelle sbagliate, miopi e conflittuali potrebbe costare il fallimento del nostro debito pubblico, con tutte le conseguenze immaginabili per le nostre famiglie e le nostre imprese. Dipende tutto da noi, dal Governo, dalla responsabilità delle forze politiche tutte. Serve una visione comune, serve condivisione, serve uscire dal tutti contro tutti. Abbiamo solo due mesi di tempo per chiudere la fase emergenziale e avviare la ripartenza. Non c’è più tempo da perdere.
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