«Se il procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi dovesse essere sconfessato dalla prima commissione del Csm cui ha chiesto trasferimento e cambio di funzioni per il pm milanese Paolo Storari, si dovrebbe dimettere». Lo scrivevamo sul Riformista lo scorso 27 luglio, e non possiamo che ribadirlo. Non per un improvviso furore giacobino nei confronti dell’alto magistrato, ma semplicemente perché quando si perde uno scontro politico importante come quello in corso tra le toghe italiane, si dovrebbe almeno mostrare la stessa dignità che viene richiesta ogni giorno ai politici. “Per ragioni di opportunità”, si usa dire.
Insieme alla sconfitta di Salvi, del suo asse con il procuratore di Milano Francesco Greco e con il loro nume tutelare Giuseppe Cascini (potremmo aggiungere senza timore di sbagliare) è andato in crisi un sistema, un metodo che dominava e soffocava da trent’anni la democrazia italiana. Il sistema Mani Pulite, che era la presunta lotta del Bene contro il Male, ma anche e soprattutto qualcosa di più, qualcosa di peggio e di terribile: la capacità di governare trucchi e trucchetti processuali con la garanzia dell’impunità. Un vero maccartismo politico per via giudiziaria.
È stata in gioco in tutti questi anni semplicemente la Grande Questione del Potere. Non è vero, come vuole la interessata vulgata del partito dei pm, che loro hanno occupato, obtorto collo, spazi che una politica imbelle aveva lasciato liberi. È andata esattamente al contrario. È invece successo che, proprio come ha capito e realizzato molti anni dopo il populista Beppe Grillo dando l’assalto al Parlamento, all’inizio degli anni novanta un Movimento in toga, cogliendo il momento di difficoltà politica e soprattutto economica del Paese, abbia aggredito i partiti e le grandi imprese. L’acclamazione delle tricoteuses e del popolo festante che faceva il girotondo intorno al Palazzo di giustizia di Milano hanno fatto il resto. I suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari ancora grondano sangue a dimostrazione di quanto violenta e politica sia stata quella guerra, con relativa presa del Palazzo d’inverno da parte del Movimento in toga.
Non è un caso che i nodi siano venuti al pettine nel corso di un nuovo accanimento proprio sull’Eni. L’aggressione ai partiti è oggi più difficile. Quelli della Prima Repubblica non ci sono più, con la sola eccezione di quel Pci-Pds-Ds-Pd che è stato fin dal primo momento l’angelo custode del Movimento in toga. Non disinteressato, ovviamente. Un po’ perché salvato, nonostante fossero provati, anche da testimonianze “interne”, sia il finanziamento illegale ricevuto dall’Unione sovietica, sia la partecipazione alla spartizione con gli altri partiti alle commesse illegali delle grandi aziende. Alcune delle quali furono spolpate e portate alla cessazione dell’attività. Non a caso nessuno si alzò a protestare in quell’aula del 1993 quando Bettino Craxi disse che i bilanci di tutti i partiti erano “falsi o falsificati”. Né Occhetto né D’Alema né altri loro compagni chiesero la parola. Tutti muti e ipocriti.
L’assalto ai partiti sui finanziamenti illeciti e sulla corruzione è praticamente finito lì, con la distruzione del pentapartito e della Prima Repubblica. Non a caso le centinaia di agguati giudiziari tesi in seguito a Berlusconi, di cui uno solo andato in porto, erano diretti a colpire l’uomo politico tramite la sua attività di grande imprenditore. E quelli tentati su Salvini non hanno dato grandi risultati. Ma è sempre rimasto sul piatto il boccone grosso dell’Eni. Che paradossalmente si è poi rivelato essere la vera buccia di banana su cui è sciolto il Rito Ambrosiano. Che si è rivelato essere una vera Magistratopoli Lombarda.
In che cosa consiste (è consistito) il Rito Ambrosiano? Nella grande disinvoltura nell’applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, prima di tutto. La difesa a parole da parte di procuratori e sindacalisti in toga dell’articolo 112 della Costituzione è la garanzia costante di poterlo violare con la garanzia dell’impunità. Lo aveva ben capito Matteo Renzi quando, da presidente del Consiglio, era andato a Milano a ringraziare il procuratore Bruti Liberati, uscito vincitore al Csm grazie al presidente Giorgio Napolitano dalla guerra con Alfredo Robledo, per aver salvato Expo dalle inchieste giudiziarie. Difendere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per poterlo violare sempre senza doverne rispondere a nessuno (cosa che sarebbe impossibile in regime di discrezionalità), è sempre stato un grande asso nella manica della Procura della repubblica di Milano. Insieme a quello della competenza territoriale, violata senza che altri avessero la possibilità di contestarlo, in nome della propria superiorità “morale”.
L’altro punto di forza è stato la costruzione di un fortino molto omogeneo sul piano politico e molto compatto. Grazie ai santi in paradiso, cioè al Csm, e al sistema di alleanze e cene romane (quelle ben raccontate nel libro di Sallusti e Palamara), i procuratori capo di Magistratura Democratica si sono susseguiti a Milano senza soluzione di continuità: Borrelli, D’Ambrosio, Bruti Liberati, Greco. Una storia che andrà raccontata per bene, un giorno, magari con le testimonianze dei pochi corpi estranei come Tiziana Parenti o come Alfredo Robledo, che sono stati sputati via come nocciolini indigesti, con noncuranza.
Con Paolo Storari il giochino non ha funzionato. Non si illuda, il giovane sostituto milanese. E non si adombri se gli diciamo che lui non è l’eroe del caso Eni né che, se ha sconfitto il proprio capo e addirittura un uomo potente come il procuratore generale Giovanni Salvi, ha qualche merito la sua deposizione davanti alla prima commissione del Csm. Perché quella stessa, in tempi e situazioni diverse, avrebbe sputato via come un nocciolino anche lui, lo avrebbe, senza fare neanche un plissé, trasferito a Caltanissetta e demansionato a fare il passacarte.
Non è andata così perché sta cambiando tutto. E ancora pare non essersene accorto Francesco Greco, il procuratore di Milano che farebbe bene ad anticipare di qualche mese la data della propria pensione, prevista per novembre. E farà bene il Csm a spezzare la continuità del Rito Ambrosiano nella nomina del nuovo procuratore, sia questo un esponente di Unicost (corrente centrista) come Giuseppe Amato, piuttosto che Marcello Viola, l’esponente di Magistratura indipendente già penalizzato su Roma.
Francesco Greco dovrebbe chiudere i battenti anche perché ha enormi responsabilità. La procura di Milano ha investito tutto sul processo Eni, ha fatto una scommessa pensando di poter usare i metodi del passato, quell’elasticità del Rito Ambrosiano per cui tutto è consentito pur di raggiungere il fine supremo, che in questo caso era la condanna dei vertici, presenti e passati, del colosso petrolifero. Il fortino non ha retto in questo caso, per molti motivi. Perché la testimonianza di Luca Palamara ha scoperchiato trucchi e trucchetti politici di certa magistratura che i cittadini non tollerano più. Perché i due pm del processo, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno esagerato: prove a favore degli imputati tenute nascoste e il tentativo di usare come un cavallo di troia una testimonianza che avrebbe costreetto il presidente del tribunale alle dimissioni. E sono anche incappati in un tribunale e in un presidente come Marco Tremolada che non solo ha assolto gli imputati, ma ha bacchettato con severità nelle motivazioni della sentenza il comportamento dei pubblici ministeri. E anche perché a Brescia, a capo della procura che oggi sta indagando ben cinque pm milanesi tra cui lo stesso Greco, c’è Francesco Prete, che arriva proprio da quegli stessi uffici, e che, pur non avendo mai fatto parte del “cerchio magico”, ben ne conosce le abitudini e i metodi di lavoro. Il che non è tranquillizzante per gli indagati.
A questo possiamo aggiungere che fin dal 2019 i pubblici ministeri milanesi erano in rivolta nei confronti del capo e glielo hanno quasi gridato in faccia firmando in 60 su 64 a favore di Storari, quando il procuratore Salvi, dopo aver parlato con Greco, aveva chiesto l’allontanamento del sostituto da Milano, per non turbare la “serenità” dei colleghi. Avrebbe dovuto saperlo che in politica, anche quella giudiziaria, non porta fortuna parlare di “serenità”! La composizione della prima commissione del Csm, infine, quella che decide sui trasferimenti: disboscata da tutti coloro che per un motivo o per l’altro erano in conflitto di interessi, è diventata un luogo decisionale quasi “normale”. E normalmente, come avrebbe cantato Lucio Dalla in Disperato erotico stomp, ha incontrato.. non “una puttana ottimista e di sinistra”, cioè l’immagine del vecchio Csm, ma una decisione che apre alla speranza di un vero cambiamento di regime. Per tutti questi motivi, e magari molti altri, Paolo Storari resta al suo posto. E si prevede che ne vedremo delle belle, prossimamente.