l 15 giugno del 2000 Enrico (Chico) Forti fu ritenuto colpevole di «aver personalmente e/o con altre persone, allo stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato dolosamente e preordinatamente la morte di Dale Pike». Life without parole, ergastolo senza condizionale, fu la pena comminatagli da una giuria di Miami per “omicidio di primo grado a scopo di lucro”. Il processo durò poco più di un mese senza che elementi di prova consolidati venissero portati dall’accusa. Life without parole solitamente si riserva per crimini efferati o a criminali incalliti. Da quasi 20 anni Chico, che non intende dichiararsi colpevole, lotta perché il suo processo venga riaperto. Le prove raccolte successivamente, grazie all’incessante minuzioso lavoro di amici, parenti, esperti e persone che negli anni si sono interessate al suo caso, potrebbero sovvertire la sentenza. Occorre trovare il bandolo della matassa.
L’amministrazione della giustizia negli Usa, come dappertutto del resto, è tutt’altro che senza macchia: a conflitti d’interessi, uso politico di casi clamorosi, corruzione diffusa s’aggiunge un intreccio procedurale degno d’un percorso di guerra dove, inciampati sul primo ostacolo, non si ha una seconda possibilità. Secondo la Farnesina gli italiani detenuti all’estero sono 3.278 (non pochi se paragonati ai 60.971 ristretti in Italia al 31 gennaio scorso), uno su 5 ha riportato una condanna, tre su 4 sono in attesa di giudizio: l’80% è in Europa, il 14% nelle Americhe, il resto in giro per il mondo. Se ne parla poco e alle volte basta “poco” per migliorare le loro condizioni detentive o riportarli a casa. Ci sono innocenti, colpevoli, adulti, ragazzi, a volte anche a rischio di pena di morte, dietro ogni storia ci sono altrettante famiglie che vivono l’incubo della lontananza e quello dell’impotenza di fronte a errori giudiziari, sciatterie, corruzione, macchinazioni o mancanza di democrazia nel Paese dov’è arrestato il parente. Dal 2008 esiste Prigionieri del silenzio, un’associazione che di questo s’interessa – non sempre il Governo è presente per come potrebbe.
Sono anni che, con fortune alterne, si parla di Chico Forti – recentemente in particolare grazie alle Iene – ma anche quando l’attenzione istituzionale era ai massimi livelli è mancato quel “coraggio politico” necessario per inquadrare la complessità del caso nella cornice del rispetto dei diritti umani, degli obblighi del giusto processo e delle relazione Italia-Usa. E proprio su questo, grazie al lavoro del giudice Ferdinando Imposimato e delle certosine ricostruzioni della criminologa Roberta Bruzzone, che assieme al Senatore Giacomo Santini ci confrontammo a più riprese con la Farnesina di Frattini e quella di Terzi nella speranza che un passo nei confronti del Governatore della Florida potesse esser fatto. Parte di quella documentazione è diventata poi un libro, ma il dossier con oltre 100 elementi di prova non è mai stato utilizzato per riaprire il processo – complice anche qualche errore procedurale dei primi legali statunitensi di Chico.
La sentenza Forti lasciò esterrefatto chiunque avesse seguito il processo, pareva infatti impossibile che una giuria potesse ritenere Chico colpevole di omicidio “oltre ogni ragionevole dubbio” a fronte delle prove flebili e confuse del Procuratore che tra l’altro non trovarono mai riscontri fattuali. Una successiva verifica indipendente della fondatezza di quelle “prove circostanziali” produsse una tale quantità di dubbi che il sospetto che i fatti fossero andati in modo completamente diverso è divenuto certezza per tutti coloro che hanno partecipato alla ricostruzione di quelle ore tragiche. Nel febbraio del 2012 da Senatore, e l’anno successivo da semplice cittadino, ho incontrato Chico in carcere in Florida su segnalazione di Marco Pannella. Durante le nostre visite, più simili a riunioni di lavoro, Chico ripercorse per filo e per segno gli ultimi tre giorni della sua vita da libero cittadino. Racconti a cui ero stato preparato da Roberto Fodde, l’amico che mi aiutò in quelle occasioni e che, successivamente, cronometro alla mano, mi fece fare il giro dei luoghi del delitto per come descritti dai documenti processuali incrociandoli con le contro-deduzioni preparate dall’attento studio delle carte. Un sopralluogo illuminante mai effettuato dall’accusa.
Forti non chiede trattamenti speciali, offre l’opportunità di unirsi a lui nella ricerca dell’affermazione di una versione dei fatti alternativa alle speculazioni pregiudizievoli dell’accusa. Il recente interessamento di diversi parlamentari e membri del Governo lascerebbe ben sperare. L’8 febbraio è stato il compleanno di Chico, le curve di San Siro gli hanno dedicato un enorme striscione, ricevere un chiaro impegno da parte della Repubblica italiana per ridargli una speranza di giustizia gli farà sicuramente altrettanto piacere.