Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili perché, se c’è qualcosa che nega la confidenza e la libertà di espressione dei sentimenti, si tratta proprio del carcere. Carcere deriva etimologicamente dall’ebraico carcar che significa tumulare, quindi richiama un luogo senza tempo che nega la vita. Trattare di affetti in carcere, ancora di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. Si potrebbe pensare che la sessualità è un aspetto, un sottoinsieme dell’affettività. Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi a una relazione genitoriale o tra parenti in linea diretta o, ancora, a una relazione amicale) e sessualità senza affettività quale estrinsecazione della personalità e/o di un’autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico).

Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte. Nel carcere, luogo “senza tempo”, vanno declinate l’affettività e la sessualità. È evidente che la problematica dell’affettività (quale bisogno di dare e riceve affetto) e della sessualità (quale dimensione fisiologica e naturale) riguarda tutti i ristretti, ma assume urgenza e pregnanza maggiore per quei detenuti che hanno partner e figli. In questo senso le aree verdi in molti istituti, anche della Campania, sono state introdotte per far sì che i reclusi potessero incontrare familiari e figli e coltivare, negli sguardi e nelle vicinanza, il valore della genitorialità, della protezione, della comunicazione non verbale che valorizzi sentimenti ed empatia. Ma solo qualche volta vengono utilizzati questi spazi, più come premialità che come risposte a bisogni. La moderna criminologia ha dimostrato che per vivere la genitorialità c’è necessità di incontri intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo. Non è l’idea dell’amore “ a gettoni” o di “celle d’amore”. Fino a 15 anni fa, in Parlamento, sono state presentate diverse proposte di legge in materia, calendarizzate ma mai discusse.

La maggior parte degli esperti in materia penitenziaria continua a sostenere che non si possa portare la sessualità all’interno di un luogo come il carcere, ma si debbano piuttosto portare tutti i detenuti al di fuori di esso, attraverso le tante opportunità che consentono di scontare la pena all’esterno: basterebbe ampliarne l’applicazione. Se così si ritenesse di agire (incrementando, per esempio, l’esecuzione penale presso il domicilio), la popolazione detenuta si ridurrebbe notevolmente e, mantenendo, con i dovuti controlli, il detenuto sul territorio, si faciliterebbe il suo reinserimento sociale, annullando anche gli effetti negativi del carcere. Il carcere andrebbe, poi, considerato come ultima ratio, privilegiando l’applicazione di pene socialmente utili. Si dovrebbe, cioè, ridurre la risposta del carcere a quelle situazioni in cui appare veramente indispensabile.

Con questo non bisogna certo dimenticare l’altra umanità, quella danneggiata, quella delle vittime. Ciò darebbe avvio al processo di “demolizione” dell’alto muro di cinta che separa il carcere dal mondo civile. Sono enormi, dunque, le difficoltà in cui ci si imbatte nel tentativo di portare la sessualità in carcere. Probabilmente sarebbe più semplice e proficuo aumentare le possibilità di incontro tra i detenuti ed i loro familiari “al di fuori”, se veramente si volesse pensare al loro reinserimento e alla loro riabilitazione. Sarebbe auspicabile, quindi, che al soggetto venisse concessa la possibilità di uscire più spesso dall’istituto per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, culturali e sociali. In fondo l’anagramma di carcere è cercare.