450 persone in mare attendono i soccorsi
Salviamo i migranti, non spegniamo l’umanità dentro di noi
Di fronte alla nuova emergenza in Mediterraneo, si è alzata forte la voce dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice: dobbiamo salvare i 450 migranti in mare, in cinque imbarcazioni! Un grido doveroso. E da ascoltare. Dice bene: «Non decidere in questa direzione significa ammettere che l’omissione di soccorso fa parte a tutti gli effetti della strategia che i nostri Governi stanno adottando per gestire il tema delle migrazioni, continuando a rendere plausibile lo straziante genocidio a cui molti ancora si rifiutano di assistere, voltando lo sguardo dall’altra parte». A mons. Lorefice, lodevolmente, si è unito il Centro Astalli dei gesuiti.
Sento anch’io l’obbligo di unirmi alla loro voce e ricordare ai governanti – e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà – dei paesi del Mediterraneo e di tutta l’Unione Europea che in mare ci sono uomini, donne, bambine e bambini, i quali sono colpevoli solo di essere poveri e disperati: in quelle barche ce ne sono 450. Tutti li consideriamo come stranieri. Papa Francesco ci ha ricordato che sulla terra – e anche in mare – siamo “tutti fratelli”. E la durezza della condizione non cancella la fraternità. Semmai, dovrebbe acuirla. È questo l’umanesimo che abbiamo appreso sia dal cristianesimo che dal pensiero laico. Una verità che è decisiva quando i tempi si fanno difficili per tutti. Se una cosa abbiamo appreso dalla pandemia è che “nessuno si salva da solo”. Gli uni abbiamo bisogno degli altri e i più deboli hanno bisogno di tutti. E, se è vero come è vero che siamo tutti sulla stessa barca, è vero anche che siamo tutti nella stessa tempesta, ma su barche diverse e magari anche su ondate diverse.
È forse un po’ triste considerarlo. Ma non possiamo tacere. La sfida del Covid-19 ancora non ci ha reso più umani; il virus è riuscito nel suo intento di diffondersi in un altro modo ancora, a livello sociale, trovando una straordinaria collaborazione: renderci ancora più individualisti. Il primato dell’“io” ci fa sragionare. Il semaforo è rosso? Passo ugualmente, tanto a me nulla può accadere sulle strade estive di città svuotate e accaldate. Il virus si sconfigge con il vaccino e con comportamenti a tutela di me stesso e degli altri? Li ignoro nel nome della mia libertà perché nessun governo, nessuna autorità sanitaria, possono impormi limitazioni (una presunzione pericolosissima, di cui molti per fortuna si sono già ravveduti). Il Covid-19 ha provocato 4,2 milioni di morti nel mondo (dati Oms-Ministero salute, al 3 agosto)? Posso non crederci, in molti possono pensare che si tratta di una gigantesca macchinazione sanitaria ed economica, come se vivessi in un universo parallelo! Ecco i prodigi negativi dell’individualismo. L’“io” non deve assolutamente diventare il padrone della storia, di una storia individuale che distrugge la vicenda collettiva che ha condotto per mano l’umanità.
La Chiesa con Papa Francesco indica una direzione diversa. Siamo orgogliosi di 5 o sei ori olimpici (non dimentichiamolo: tutti conquistati con incredibili sacrifici e rinunce!), di un’Italia al dodicesimo o tredicesimo posto nel medagliere, capace – come ci racconta in continuazione – di straordinarie imprese, sportive. Siamo fieri del Pnrr che finalmente ci farà uscire dalla crisi e siamo convinti che da domani avremo una giustizia finalmente al passo con i tempi e con la civiltà. Tutto qui? E i migranti? E i disperati che ogni giorno ricordano alla coscienza collettiva di essere senza lavoro, senza casa, senza patria, in mezzo al mare, colpevoli “solo” di desiderare una vita migliore?
La Chiesa indica una direzione diversa da sempre. Da parte sua Papa Francesco, quando ci dice che la “fraternità” è il nostro compito, è lo sfondo in cui vivere, attualizza un perenne messaggio. Messaggio raccolto in due sfolgoranti quadri, il primo biblico, il secondo evangelico.
È la domanda che Dio rivolge a Caino: dove è tuo fratello? E Caino sa di avere appena ucciso Abele, sa di avere commesso un’azione malvagia ma non ha il coraggio di ammetterlo e risponde: sono forse io il custode di mio fratello? Ebbene sì, la chiave è quel “sono forse io”. Sì, sei tu, sei tu (io, tu, noi… tutti) perché ognuno di noi ha una responsabilità nei confronti degli altri, perché siamo tutti, in ogni caso e in ogni condizione) sorelle e fratelli tutti.
Ed è una visione avallata dallo stupefacente episodio raccontato dal Vangelo di Giovanni. «Gli scribi e i farisei conducono davanti a Gesù una donna sorpresa in adulterio e gli dicono: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? Così parlavano, spiega l’evangelista, per metterlo alla prova e accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna. Alzatosi allora Gesù le disse: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv. 8, 3-11).
Queste pagine ci ricordano una semplice verità: il peccato è sociale. Nel regno dell’individualismo, nella sacralizzazione del nostro personale interesse, del nostro egoismo, nello sguardo ristretto che punta al mio ombelico, al mio “io”, dimentichiamo il contesto, non pensiamo di far parte di una comunità umana. Il peccato è sociale. Il peccato che oggi la Chiesa pone al centro dell’attenzione in maniera rinnovata, con forza, si chiama mancanza di responsabilità e attenzione verso gli altri. Verso i nostri fratelli e sorelle in difficoltà e che potremmo aiutare. Vero i figli, le figlie e i nipoti, ai quali dobbiamo consegnare un ambiente dove possano vivere, e non una terra bruciata, desolata e sfruttata da padri, madri, nonni, zii avidi di possesso e di guadagno.
Non si tratta di salvare i migranti in mare oggi o domani e poi basta. Perché ci saranno nuovi migranti, domani o dopodomani. Il flusso della storia va compreso, interpretato, non ignorato. Apriamo gli occhi di fronte alla miopia di una politica che riempie di slogan e vuole semplicemente ignorare “l’altro”. L’altro è un nemico, è straniero, viene a rubare o sottrarci un pezzetto del nostro benessere. No, non è vero: l’altro è una persona in cui specchiarmi e ritrovarmi. Se lo scaccio, allora prendo la rincorsa sulla strada della disumanità. Ma questa – permettetemi di dirlo – è una Olimpiade che non possiamo vincere.
E allora, bene ha fatto l’arcivescovo Corrado a lanciare il suo grido: mettiamo l’umanità al centro. E alla politica, all’economia, alla cultura, ai media: pensiamo certo ai premi letterari estivi, pensiamo agli ori dei successi sportivi, pensiamo ai soldi del Pnrr e a come spenderli. È un dovere. Ma non spegniamo l’umanità dentro di noi. È decisivo, sempre, anche d’estate, salvare persone, costruire strade di solidarietà umana per una società migliore. Guardiamo al futuro costruendo convivenze pacifiche, non rinneghiamo l’ospitalità per un pugno di voti, per un effimero consenso elettorale mentre persone vere muoiono, colpevoli di cercare un futuro migliore – come del resto ciascuno di noi cerca di fare – e ci chiedono aiuto per questo. E noi? Abbiamo la codardia di Caino di rispondere: sono forse io il custode di mio fratello?
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