Salviamo l’università dall’inferno dell’efficienza e della burocrazia

Quando alla mobilitazione seguirà la discussione, sono tuttavia molte le questioni che andranno affrontate e chiarite: come riuscire a distinguere sostanza e toni della rivolta tra il campo degli studi umanistici (che al momento mi pare prevalere) e quello degli studi tecno-scientifici (in cui spesso gli stessi problemi sono affrontati in altro se non opposto modo); quale significato oggettivo e non ideologico assegnare alla analisi e denuncia dei legami tra ricerca/formazione e società dei consumi, strapotere della finanza sulla vita quotidiana, violenta dipendenza tra offerta professionale e discriminazione del mercato del lavoro; l’esile eppure cruciale margine che divide, deve dividere, e tuttavia congiunge, deve congiungere, un movimento culturale, tanto più se vincolato a una funzione istituzionale, da un movimento sociale o addirittura politico; la differenza – anche questa ad alto rischio di ideologizzazione – che passa tra la contestazione e rifiuto di ogni barriera valutativa (allo stato attuale nefasta così come pensata e praticata) e la richiesta di una rielaborazione di criteri selettivi, qualitativi, diversamente fondati (che comunque richiederebbero non solo procedure più oneste e trasparenti, ma anche teorie in tutto diverse da quelle sino a oggi in funzione). E molto altro ancora. Ma innanzi tutto bisognerà trovare il modo per discutere sul nodo più importante da sciogliere se si vuole trovare un linguaggio comune o almeno una possibile convergenza tra più linguaggi. Questo nodo è l’Umanesimo. Nel dicembre 2013 uscì su “il Mulino” un appello per le scienze umane a firma autorevole di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Galli della Loggia, in cui si attaccava – vi furono risposte adeguate? Non ricordo – il metodo della valutazione, dunque la stessa materia bollente che suscita oggi la rivolta contro l’Anvur e contro la cecità dei suoi strumenti di selezione e legittimazione, a danno invece che vantaggio dei ricercatori-docenti e della qualità stessa del sistema universitario in quanto tale, dunque della nostra stessa società. Vi si leggeva: «Il paradigma di valutazione, inteso come cifra generale del nostro tempo, più e prima che strumento di informazione e di selezione costituisce di fatto una modalità di denazionalizzazione della cultura e di omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato. Indici bibliometrici, nozione produttivistica di conoscenza, impostazione di fondo di tipo ingegneristico-statistico formano una costellazione integrata il cui esito non può che essere la disintegrazione dei saperi dell’uomo così come sono stati elaborati in secoli di storia italiana e non solo. Basti pensare a quanto avviene sul piano della lingua con l’assoluto predominio dell’inglese. Ma se il “politico” è indubbiamente la chiave interpretativa della cultura italiana, allora si tratta, oggi, di ritrovarla. Dopo anni di recessione e di crisi siamo divenuti completamente avvezzi all’idea che l’alfa e l’omega della politica sia l’economia. C’è una logica nel fatto che oggi l’Europa della crisi economica sia al tempo stesso l’Europa della crisi della politica. Una crisi nella quale si riflette – è impossibile non vederlo – il progressivo declino della cultura umanistica che tutto l’Occidente conosce da decenni. L’Italia è solo il caso più grave: forse perché le culture politiche del Novecento italiano hanno avuto tutte un legame fortissimo con la storia nazionale, in quanto tutte hanno preso le mosse da una critica più o meno giustificata nei suoi riguardi. Si pensi, per fare solo qualche esempio, ad autori come Croce, Gentile, Amendola, Gramsci, Bobbio». Ormai molti dei contenuti e dei toni usati da questi illustri intellettuali sono stati spazzati via dal grumo di problemi scatenato – come ben sapeva allora, e oggi più ancora, proprio Roberto Esposito – dalla società delle reti e da un post-umanesimo da subito vincolato alla dimensione radicale del post-umano. Ecco, io mi auguro che la presente rivolta non batta sugli stessi tasti: c’è modo di essere più audaci. Più consapevoli della posta in gioco. Sempre ai tempi dell’appello per le scienze umane di aperta fede umanistica, l’Editore Luca Sossella aveva fatto circolare, tradotto in più lingue, un breve testo, poi andato disperso, intitolato Wanishing Point, in omaggio a un fortunato film di culto “americano” uscito in Italia con il titolo Punto Zero (punto zero: là dove la domanda sul “che fare” impone di fermarsi a pensare per decidere, per tagliare di netto con il passato). Ecco il suo esordio: «Supponiamo che sia giunta la fine definitiva e irreversibile del luogo istituzionale in cui per vari secoli le società hanno formato le proprie classi dirigenti affidando ad alcune specifiche discipline – definite umanistiche a partire da quelle classiche come l’etica – il compito di elaborare le forme di pensiero necessarie a governare i mutamenti e i conflitti del proprio tempo presente e di quello a venire. Supponiamo, dunque, che si sia in tutto dissolta l’università in quanto produzione di capacità di governo sulla complessità della vita umana. E in effetti i segnali di questa sparizione del senso originario delle istituzioni accademiche non mancano di certo. Sono davanti ai nostri occhi. È allora possibile immaginarsi un processo innovativo – meglio dire divergente – che cerchi di uscire dal vuoto di tali istituzioni, dalla loro inefficienza culturale, trovando altri luoghi e altre modalità per fare una formazione che sia all’altezza della posta in gioco nelle attuali dinamiche di globalizzazione e localizzazione della vita umana? È su questa domanda che conviene forzare la nostra riflessione lasciando ad altri l’inutile esercizio di restare imprigionati nella logica triste e impotente delle riforme – della loro perversa concatenazione, del loro continuo incatenamento – mediante le quali sino a oggi si è vanamente consumato ogni impossibile tentativo di risanare le istituzioni universitarie».