E dunque. Se rivolta deve diventare, questa sollevazione universitaria, allora si dovrà avere il coraggio di considerare inutili e anzi dannosi i soliti appelli di risanamento democratico delle istituzioni. Inutile fare ricorso agli ingredienti classici della “buona politica”. Si dovrà avere il coraggio di reinventare persino il lessico necessario a spezzare il vincolo storico tra le “parole” della modernità (del soggetto moderno, occidentale: quello del capitalismo storico, sublimatosi ora in totalitarismo finanziario) e le “cose” di cui il tempo lungo dei regimi moderni si è appropriato, e a forgiato a propria immagine. Prima tra tutte la parola formazione, che porta in sé tutto il carico delle “abitudini” progressiste e autoritarie di termini d’uso sociale tra i più accreditati come educazione e istruzione: termini radicati in ambienti relazionali di per sé centralizzati, verticali e unilaterali.

C’è da scavare molto – e di nuovo, seppure in modo rovesciato, a partire dalle sue origini – sul binomio vocazione/professione. La protesta di questi giorni sta insistendo a dire che di fatto la macchina universitaria va producendo professioni senza vocazione. Giusto! Per dare un contenuto alla protesta dovremo però fornire idee davvero praticabili, all’avanguardia nella sostanza e non semplicemente di nuovo libertarie (è questo l’orto di cui le tradizioni umaniste hanno abusato facendosi responsabili del fallimento culturale, prima che politico, dei ceti dirigenti). Così come è, l’Università non può venire riformata. Ce ne vuole un’altra di sana pianta: fatta di contenuti e non di ideologie, a evitare che la ventata di ribellione si riduca a concepire una istituzione destinata a produrre vocazioni senza professioni.

E se così accadesse, o fosse adombrato dovere accadere, non sarebbero le vocazioni giuste ma soltanto un sovrappiù di umana “falsa coscienza”. Allora avrebbero ragioni da vendere a proprio vantaggio i sostenitori della supremazia tecno-scientifica sul destino delle persone: sulla loro esperienza quotidiana, ovvero dentro il territorio vivente su cui più infierisce e ferisce la violenza dei conflitti di potere.