Da tempo mi interrogo su quale sia la logica che sta portando la Lega a rivendicare Quota 41 come caposaldo del nuovo sistema pensionistico made by Salvini. Non trovando spiegazioni razionali e plausibili in un contesto previdenziale, mi sono convinto che quel numero è stato individuato come se dovesse essere giocato al Lotto. Grazie a una piccola ricerca sul sito ho scoperto che il numero 41 (nella cabala raffigura il coltello) nelle ultime 100 estrazioni è uscito, sul totale nazionale, solo 4 volte. Infatti non solo è una misura sbagliata, ma soprattutto inutile.

I veri problemi del sistema pensionistico

Tale rimane anche omettendo di richiamare i veri problemi del sistema pensionistico, resi ancora più gravi in conseguenza dei provvedimenti dissennati risalenti al governo gialloverde, ovvero lo tsunami demografico che nei prossimi 20 anni vedrà lo scontro di due platee strutturalmente differenti: le generazioni dei baby boomers, che andranno numerose in pensione anticipata con storie contributive importanti e continuative acquisite a un età da anziano/giovane (l’età media alla decorrenza è pari a 61,7 anni) a carico di generazioni di contribuenti già falcidiate alla nascita e con accessi tardivi e spesso saltuari nel mercato del lavoro.

Gli squilibri demografici

In sostanza andiamo in contro a una stagione in cui i pensionati saranno tanto di più (2,5 milioni) mentre le persone in età da lavoro (15-64 anni) si ridurranno di più di 5 milioni. Omettiamo anche di sottolineare che il mercato del lavoro soffre di una grave crisi sul lato dell’offerta e che non ha senso privare le aziende di personale (Quota 100 ha dimostrato che non esistono automatismi tra chi esce dall’azienda e chi vi entra). Limitiamoci pure a ragionare di pensioni come se non esistessero gli accennati squilibri demografici, il debito pubblico, il peso della spesa pensionistica sul Pil, come se le pensioni fossero un mondo a sé, avulso dalla realtà finanziaria, economica e sociale di un paese.

Su Quota 41 confermo il precedente giudizio per diversi motivi molto pratici. In primo luogo esiste già da anni una misura molto simile per i cosiddetti lavoratori precoci, coloro che possono far valere 12 mesi di contributi versati prima dei 19 anni e particolari condizioni personali o famigliari. In sostanza chi dovesse trovarsi in caso di bisogno può (lo fanno 50mila lavoratori all’anno) andare in quiescenza con 41 anni di anzianità senza pagare il pegno del ricalcolo contributivo integrale come è previsto da Quota 41 light, secondo la definizione di Claudio Durigon. Se poi questo lavoratore decide di lavorare ancora per meno di due anni se maschio e meno di un anno se femmina, può avvalersi del pensionamento anticipato ordinario (42 anni e 10 mesi se uomo, un anno in meno se donna). Questa via d’uscita con i requisiti bloccati fino a tutto il 2024 ha favorito, proprio perché non erano previsti requisiti anagrafici (come nelle varie quote), un esodo molto più anticipato anche rispetto al sistema quote.

La quasi impossibilità dei giovani di accumulare anzianità contributiva

Si dirà: se un lavoratore intende rinunciare a una parte della pensione per andarsene via con Quota 41 e il calcolo contributivo, saranno cavoli suoi. È compito dello Stato garantire una certa adeguatezza del trattamento. Ci sono altri problemi: non si costruisce un sistema pensionistico fondato sulla condizione lavorativa degli uomini che vanno in quiescenza oggi e nei prossimi anni. Le donne in Italia lavorano in media 28 anni e non sono quindi in grado di avvalersi del trattamento anticipato (infatti nello stock dei trattamenti di anzianità del Fpld, a fronte di 2 milioni di maschi, vi sono solo 770mila donne). Sono quindi condannate a seguire in prevalenza il percorso della vecchiaia (67 anni più almeno 20 di contributi). Un analogo ragionamento vale per i giovani che – per come entrano e rimangono nel mercato del lavoro – non hanno la stessa opportunità delle generazioni precedenti di accumulare anzianità contributive importanti che consentano loro di eludere il requisito anagrafico.

Per quanto riguarda l’altra proposta della Lega sul trasferimento del Tfr ai fondi pensione privati in via diretta, salvo rifiuto esplicito del lavoratore, vi è materia di discussione. Non si tiene conto però dei costi di un’operazione siffatta per le imprese e per lo Stato. Sorgerebbero grossi e delicati problemi per le aziende e per il Tesoro; infatti anche al Tfr – non optato nelle aziende da 50 dipendenti in su – è stato applicato il criterio del finanziamento a ripartizione e il relativo ammontare viene versato al fondo Tesoro presso l’Inps e diventa così un’entrata per lo Stato per la spesa corrente. Dall’avvio della riforma al 2020 – su 348,4 miliardi cumulati di Tfr – 192,9 miliardi (il 55,4% del totale) sono rimasti in azienda; 80,3 miliardi (il 23% del totale) è confluito nel Fondo di Tesoreria. La parte destinata alla previdenza complementare è stata di 75,2 miliardi di euro, il 21,6% del totale.