Il 25 aprile del 1945 mio nonno era già morto da molti mesi, fucilato dai nazisti insieme a nove cittadini italiani. Non ebbe quindi la possibilità di festeggiare, se non dai Campi Elisi, il trionfo sui fascisti alleati di Hitler. Apparteneva alla 36esima Brigata Garibaldi, era stato arrestato l’anno prima con alcuni membri della sua famiglia, compresa mia madre che poi riuscì a fuggire dal treno della deportazione. Lui e gli altri detenuti vennero prelevati dalle carceri dentro la Rocca di Forlì. Furono tutti mitragliati a Pievequinta, lungo la strada che conduce verso Cervia, nello stesso punto in cui per ordine dei Gap forlivesi era stato ucciso un caporalmaggiore tedesco. Fu una delle tante feroci rappresaglie della drammatica estate del 1944 a ridosso della Linea Gotica. Antonia Laghi, a quel tempo giovane attivista partigiana che abitava nelle case nei pressi dell’eccidio, vedendo i cadaveri dei prigionieri, gettò sui corpi dei caduti un mazzo di papaveri rossi in segno di omaggio. Ogni tanto telefono a questa donna, oggi quasi centenaria ma ancora lucidissima e carica di passione militante, che mi racconta la sua educazione sentimentale nella Resistenza.

Tutto ciò è difficile da spiegare alle nuove generazioni europee, e purtroppo non solo a loro, ma si tratta di una sfida che dobbiamo affrontare per far comprendere il costo della democrazia. Che è sempre alto, nonostante le apparenze. Per ottenerla, come dimostra la storia, deve scorrere il sangue. Non si tratta di una condizione naturale. Più facile farlo capire ai giovani africani, i quali magari stanno vivendo adesso sulla propria pelle ciò che noi a stento ricordiamo. Quando i protagonisti diretti non ci saranno più, resteranno le pagine della letteratura. Ecco perché ogni anno in questi giorni torno a rileggere alcuni passi sottolineati, tra Beppe Fenoglio e Cesare Pavese.

Mi basta scorrere qualche riga per rievocare un’intera stagione. Più che le riflessioni teoriche o i pronunciamenti ufficiali, valgono certi scorci fuggevoli. Ad esempio dal Partigiano Johnny (per la citazione faccio una sintesi fra la prima vecchia edizione del 1968 curata da Lorenzo Mondo e l’ultima del 2015 approntata da Gabriele Pedullà, entrambe Einaudi): «Pierre andò a radersi e Johnny e le guardie aspettarono, in silenzio, guardando, con blasfeme pupille, al cielo che rinforzava la pioggia. Johnny sedeva e fumava al limite della pioggia. Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), quindi alzarsi, senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba, mezzostimata, mezzoamata».

Un passaggio come questo, nella quasi esibita trasandatezza della prima stesura, assomiglia a ciò che della Resistenza mi raccontava mio zio Domenico, detto Bill, anch’egli partigiano, ma sopravvissuto. Pura azione immersa in se stessa, quando le decisioni sono state già prese, figlie dello scandalo per la perduta libertà che la dittatura aveva determinato. Ecco il valore specifico distintivo incontestabile, non dimentichiamolo, della Liberazione. In più ci sono le sfumature sopraffine del grande narratore, i fregi dorati dello scrittore epico-lirico di gran lunga più significativo che abbiamo mai avuto: sarebbero sufficienti quelle “blasfeme pupille”, incapaci di trattenere l’indignazione e la rabbia, a testimoniarlo. E per rendersi conto di cosa potesse rappresentare la pace nella coscienza delle persone che l’avevano smarrita, c’è sempre Una questione privata.

Un’anziana sta parlando vicino al fuoco, nell’umidità del casolare, rivolta ai ragazzi coi fazzoletti azzurri badogliani venuti a rifocillarsi da lei: «Da stasera voglio convincermi che a partire da maggio i nostri uomini potranno andare alle fiere e ai mercati come una volta, senza morire per la strada. La gioventù potrà ballare all’aperto, le donne giovani resteranno incinte volentieri, e noi vecchie potremo uscire sulla nostra aia senza la paura di trovarci un forestiero armato. E a maggio, le sere belle, potremo uscire e per tutto divertimento guardarci e goderci l’illuminazione dei paesi». Dove anche l’ultima ripetizione (“a maggio potremo uscire”), ricca di ulteriore risonanza in queste nostre giornate recluse a causa della pandemia, accresce il presagio e la densità del futuro annunciato.

Per chi volesse trovare un nesso ancora più stringente con il sentimento patriottico depurato da ogni enfasi nazionalista che in molti abbiamo percepito nelle scorse settimane, vale sempre il richiamo pavesiano siglato nella Casa in collina, spesso inserito nelle antologie scolastiche. Anche qui si sta discutendo fra gente d’ogni estrazione sociale e di varia età anagrafica: contadini e intellettuali, tra i fuochi e le fiamme della guerra civile fratricida, in attesa dell’auspicata vittoria. A un certo punto scatta un interrogativo retorico: «Professore, – esclamò Nando a testa bassa, – voi amate l’Italia? Di nuovo ebbi intorno le facce di tutti: Tono, la vecchia, le ragazze, Cate. Fonso sorrise. – No, – dissi adagio, – non l’Italia. Gli italiani. – Qua la mano, – disse Nando. – Ci siamo capiti».