Nel Pd nazionale tutti dicono di volere un partito più forte, ma spesso alle intenzioni non seguono azioni coerenti. Un partito più forte non può eludere la necessità di ottenere percentuali decisamente superiori di consenso nel Mezzogiorno, dove già subisce la concorrenza del radicamento del Movimento Cinque Stelle. In una regione popolosa e strategica come la Campania, però, concorrono alla debolezza anche fattori specifici. Alle ultime elezioni napoletane il Pd non è andato oltre i 40mila voti, confermando il peggiore risultato di sempre, quello maturato in piena epoca de Magistris. Non era andata molto meglio alle regionali, con il 17% registrato nell’ambito del trionfo di Vincenzo De Luca. L’insufficiente radicamento sociale, dunque, non dice tutto. Ci sono nodi che non si riesce a sciogliere.

La dichiarazione del segretario metropolitano Marco Sarracino, che preannuncia l’espulsione di una trentina di dirigenti colpevoli di aver fatto campagna elettorale in liste concorrenti o addirittura contrapposte al Pd, in un sistema dei partiti serio non fa una piega ed è peraltro scontata, perchè gli statuti dem parlano chiaro. Ma quegli statuti sono sempre stati “optional”. Questo cambio di strategia va dunque messo in connessione sicuramente con il benemerito tentativo di rilanciare il partito e cominciare a fare le cose seriamente. Ma anche con un nervosismo che ha cause interne. Una parte del partito ha sostenuto Antonio Bassolino, altri iscritti hanno sostenuto Gaetano Manfredi candidandosi però in liste della coalizione diverse da quella del Pd. Ma quando si vanno a toccare queste posizioni si apre un tema delicato. Il vero freno al Pd non deriva infatti dalla “porte girevoli”, cioè di un partito dove si entra e si esce a seconda delle convenienze, ma dal ruolo del presidente della Regione De Luca e dal fatto che il segretario regionale sia un uomo di sua incondizionata fiducia. De Luca, nel suo feudo di Salerno, non presenta la lista del partito al quale è iscritto – Pds, Ds, ora Pd – dal 1993, preferendo una civica personale (quella dei “progressisti”).

In anni più recenti ha organizzato una vera e propria formazione politica, Campania libera, con transfughi del centrodestra. Alle recenti regionali ha fondato altre civiche che poi ha proiettato, per quanto possibile, anche sulle amministrative di un mese fa. A Benevento, infine, deluchiani sono fuoriusciti dal partito da tempo e ora sostengono il sindaco rieletto Clemente Mastella. In altre parole, il sistema De Luca magari fa vincere ma toglie spazio politico al Pd. Ecco perché la mossa di Sarracino coglie un punto giuridico, ma non risolve il grosso problema politico derivante dal fatto che il massimo dirigente in Campania del partito non perde occasione per ridimensionarlo. A Roma hanno sempre lasciato fare. La fagocitazione del partito da parte di esponenti istituzionali non è una novità per il Mezzogiorno, dove la dimensione notabiliare continua a emergere in ogni forma. La novità è che il potere personale, in Campania, gioca contro il partito. Bassolino era considerato un importante leader nazionale. Aveva un potere che andava oltre il partito, ma non a suo detrimento. Con De Luca è diverso. Ormai si tratta di un problema nazionale che il gruppo dirigente di Enrico Letta non può continuare a ignorare. Perché, senza un partito forte e attrezzato, nella terza città d’Italia non si va molto lontano né si può parlare credibilmente di Mezzogiorno.