La verità sulle stragi
Scarpinato deluso dall’arresto di Messina Denaro si inventa una nuova trattativa
È la Nuova Trattativa secondo il senatore Roberto Scarpinato. Lo ha detto a La7, lo ha ripetuto su Repubblica. Matteo Messina Denaro si è fatto prendere, si è consegnato dopo essere stato protetto a livello altissimo per trent’anni. In cambio di che cosa? Dell’abolizione del 41 bis. Chissà perché nessuno ci ha pensato prima, magari lo stesso procuratore Scarpinato, che ha inseguito colui che chiamava, come ci rivela oggi, “Diabolik”, e che ha fallito nel suo compito. Sarebbe dunque bastato promettere un alleggerimento delle condizioni di detenzione e il Capo incontrastato di Cosa Nostra, il numero uno dei corleonesi cui vengono attribuite tutte le stragi degli anni novanta avrebbe deposto le armi?
Certo che il dottor Scarpinato, pur nella sua nuova veste di senatore, è proprio uno che non si arrende. Ha contribuito al primo processo Trattativa, evaporato nel nulla proprio nell’appello in cui lui rivestiva il ruolo dell’accusa. E oggi alza il tiro, perché è incontestabile il fatto che l’arresto di Matteo Messina Denaro metta medaglie sul petto non solo ai valorosi uomini del Ros, l’organismo messo in piedi da quel generale Mori che è stato assolto, ma indubbiamente anche della procura della repubblica di Palermo e dal suo capo Maurizio De Lucia, che ha coordinato le indagini. Cose che bruciano. Così ci si fa storiografi.
La storia del fallimento di indagini e pedinamenti che non è solo la storia delle difficoltà nel trovare l’ultimo latitante, ma anche i precedenti capi dei corleonesi, cioè Totò Riina e Bernardo Provenzano, è ricostruita con l’espediente di attribuire sempre la responsabilità a qualcun altro. Prima di tutto questi boss, si dice, sono stati protetti, aiutati, ma non tanto da mafiosi e complici locali, quanto da burattinai ad “altissimo livello”. Non mancano responsabilità di forze dell’ordine e apparati dei servizi, perché ogni pedinamento finiva in nulla, e Diabolik sgusciava via come un’anguilla sempre un attimo prima dell’arresto, come se fosse stato avvertito da qualcuno. Il che non è difficile da credere, dal momento che tutti i grandi latitanti hanno finito per essere arrestati vicino a casa, cioè nel luogo di maggior protezione sociale, dove, un po’ per antica fratellanza e un po’ per paura, non era facile denunciare. Indipendentemente dall’esistenza dei “livelli altissimi”, cui Giovanni Falcone non ha mai creduto e che comunque non sono mai stati individuati, nonostante i tanti tentativi, finiti sempre con la richiesta di archiviazione da parte della stessa procura che li aveva istruiti.
Ma quale sarebbe il motivo di questa protezione per un periodo così lungo? Neanche la più sfrenata fantasia potrebbe indurre qualcuno a ritenere che dal 1993, anno delle ultime bombe, a oggi, governi di ogni tendenza politica e capi di Stato siano stati, tutti insieme, complici di questo Grande Complotto di sostegno alla mafia. Anche perché nel frattempo, con strafalcioni e depistaggi, come quello su Scarantino nelle indagini sulla strage di via D’Amelio, gli esecutori delle bombe venivano individuati, processati e condannati. E ai capi venivano attribuiti in blocco, nella veste di mandanti, tutti gli attentati. La verità processuale, con errori e gravissimi svarioni, è stata comunque raggiunta. Ma lo storiografo non si accontenta. Ed ecco come è la ricostruzione del senatore-procuratore Scarpinato. Matteo Messina Denaro è stato protetto perché conosce, insieme a pochi altri, che comunque sono già in carcere, la “verità” sulle stragi.
Quale verità? Credevamo di conoscerla. Oppure i giudici delle corti d’assise che hanno emesso le sentenze di condanna per gli attentati e le bombe, a partire da quella di Capaci, hanno preso lucciole per lanterne? No, spiega lo storiografo, perché i mafiosi condannati sarebbero stati solo il braccio armato e oggi sarebbero delle vittime, dei capri espiatori. Usati da coloro che avevano attuato la strategia della tensione che “a Palermo, Firenze, Milano e Roma, hanno utilizzato il linguaggio cifrato delle bombe per pilotare la transizione dalla Prima alla Seconda repubblica in modo indolore”. “Indolore”? Con le bombe e i morti? Fa una certa impressione sentire questo ragionamento politico sulla bocca di chi fino a poco tempo fa maneggiava su questi argomenti le carte giudiziarie e i processi. Certo che in questo modo si spazzano via anni e anni di inchieste giudiziarie che trattavano di narcotraffico, usura, estorsioni, incendi e omicidi. Tutto era dunque finalizzato a quel passaggio “indolore” dalla Prima alla Seconda repubblica? Tutti agli ordini di Silvio Berlusconi, e anche di tutto quanto il ceto politico di centrodestra, ma anche di sinistra, vista l’alternanza di governo che c’è stata in questi trent’anni? Poiché l’inchiesta, che vede in effetti il leader di Forza Italia indagato insieme a Marcello Dell’Utri a Firenze per le bombe del 1993, è destinata a finire come le precedenti quattro, cioè archiviata, il problema oggi non è certo di tipo giudiziario.
Ormai, con l’ingresso nei gruppi del Movimento cinque stelle di due alti magistrati come Scarpinato e Cafiero de Raho che stanno già dicendo che con il governo Meloni “la mafia è stata cancellata dall’agenda politica”, è un po’ come se il Parlamento fosse diventato una grande procura siciliana. E tutto viene vissuto, come ha detto lo stesso ministro Nordio, in chiave “antimafia”. Si è partiti addirittura, in modo veramente specioso, con la riforma Cartabia. Approvata dal Parlamento, poi rinviata la sua entrata in vigore di due mesi su richiesta dei procuratori generali, infine bersagliata di critiche come se fosse finalizzata a far scarcerare i mafiosi, solo per la previsione di ampliamento del numero di reati perseguibili a querela. Ora siamo alle intercettazioni. Anche queste vissute in chiave “antimafia” con relative colpevolizzazioni, da cui speriamo non solo il ministro Nordio, ma soprattutto la premier Giorgia Meloni sappiano sottrarsi.
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