È bastato fare il solletico alla legge “spazzacorrotti” di Conte-Bonafede perché la Presidente del Consiglio fosse considerata amica dei ladri, quella che porta la borsa con la refurtiva del Guardasigilli. Eppure, con la votazione di due giorni fa, il Senato non ha fatto altro che cominciare a tirar giù un mattoncino con cui il furore grillino aveva equiparato a un mafioso o un terrorista chi commetteva un reato contro la pubblica amministrazione. Si torna a prima del 2019, semplicemente.

Il pubblico ufficiale che si sia reso responsabile di reati come la corruzione o la concussione sarà arrestato, processato e condannato esattamente come è sempre accaduto prima che i giacobini si impadronissero del governo. Si torna alla normalità. E questo pare inaccettabile. Lo ha detto in aula il senatore Scarpinato, che dopo trent’anni e miliardi spesi per nutrire squadre intere di “pentiti”, dichiara fallimento perché cerca ancora la “verità” sulle stragi degli anni 1992-93. E vuole in galera per sempre i pubblici amministratori allo stesso modo dei mafiosi. “Pentiti” esclusi, naturalmente. Lo gridano i giornalisti di complemento, facendo il gioco delle tre carte e appellando la presidente Meloni come “amica dei ladri”.

Ma il Senato ha vissuto una giornata in cui la zampata del ministro Nordio ha lasciato l’impronta, dopo dichiarazioni pubbliche in cui aveva già raddrizzato la rotta, in seguito alla prima strampalata versione del “decreto rave”. Il famoso provvedimento che aveva trasformato d’improvviso le opposizioni al governo Meloni in una squadra di pannelliani, e che comunque noi continuiamo a ritenere quanto meno inutile, ha assunto nella prima votazione del Senato una faccia decisamente più bonaria. Prima di tutto il reato, da delitto contro l’incolumità pubblica scende di livello e diventa contro il patrimonio, punendo in definitiva, se pure in modo severo con pene fino a sei anni di carcere, solo i promotori e gli organizzatori dei rave party.

Una discreta verniciata di garantismo, dietro la quale si intravede la mano di Forza Italia e del suo capogruppo in Senato Pierantonio Zanettin. Cui dobbiamo anche quell’emendamento che sottrae i reati contro la Pubblica Amministrazione da quelli “ostativi” rispetto ai benefici di legge, che è ben più di una iniziativa individuale. È una scelta politica dell’intero governo, che è stata subita dal mondo grillino come un colpo micidiale sparato al cuore della “Legge spazzacorrotti” di Conte e Bonafede. Il mondo di Travaglio e Scarpinato è parso impazzito. Si sono messi tutti a correre come i criceti sulla ruota. Hanno sparato insulti e falsità. Il senatore grillino ha svolto la propria parte con onore e disciplina rispetto allo stile del proprio partito.

Poi, mentre un direttore del Fatto limitava le proprie ossessioni a quel che sta succedendo al Parlamento Europeo e il Pd, evocando la questione morale di Berlinguer di 40 anni fa, l’altro direttore apostrofava la Presidente del Consiglio con toni da nervi saltati. Cercando di imbrogliarla, prima di tutto. Perché non è vero che il Senato ha stabilito che “i condannati definitivi per corruzione e altri gravi reati contro la Pubblica Amministrazione possano scontare la loro pena senza trascorrere nemmeno un giorno in prigione”. Ed è inutile appellarsi a quell’infausta dichiarazione con cui Giorgia Meloni si era definita “garantista” durante il processo e “giustizialista” nell’applicazione della pena. Perché comunque la presidente ha scelto, persino forzando il garantista Berlusconi, un ministro che ha ribadito anche in questi giorni come non tutto debba essere prigione e manette.

Mentre sollecitazioni come quella della lettera del Fatto cercano di sospingere la premier verso un trapassato prossimo della sua storia politica, quasi dimenticando che sia in Alleanza Nazionale che poi nel partito Futuro e Libertà di Gianfranco Fini è esistita anche una cultura di destra tutt’altro che forcaiola. Anche se in Fratelli d’Italia è in parte ancora da costruire. Il codice penale nella sua normalità non fa sconti ai pubblici ufficiali infedeli. E le regole sui benefici di legge previsti a partire dal momento in cui il condannato ha scontato almeno un terzo della pena, valgono per tutti, con l’esclusione appunto dei reati cosiddetti “ostativi”, che in gran parte sono delitti contro la persona e la sua incolumità.

In particolare stiamo parlando di terrorismo e mafia. Ma anche di riduzione in schiavitù o violenza sessuale di gruppo. Cioè di responsabili di delitti che comportano situazioni di pericolo, rispetto alle quali, per chi ci crede e ritenga che la soluzione unica per sanzionare chi ha strappato le regole della convivenza civile, sia quella di rinchiudere le persone, il carcere può avere un senso. Per gli altri no. E comunque la reclusione non può essere eterna, dal momento che, come ha detto la Consulta, lo stesso ergastolo sarebbe in contrasto con la funzione rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione, se non esistesse per il condannato la possibilità di godere di quei benefici previsti dalla legge che prima o poi gli restituiranno la libertà.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.