Lunedì, ad Avezzano, inizierà un processo nel quale io sono imputato insieme al mio amico e collega Damiano Aliprandi, del Dubbio. Il processo è per diffamazione. I diffamati – i presunti diffamati – sono due magistrati famosi: Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Scarpinato è il Procuratore generale di Palermo, è un personaggio televisivo noto, è un commentatore piuttosto abituale del Fatto Quotidiano. Lo Forte è in pensione, ma è stato un Pm famoso anche lui. Damiano e io siamo accusati di aver chiesto conto dell’archiviazione del dossier mafia e appalti, proposta da Scarpinato e Lo Forte.

Tra qualche riga proverò a spiegare meglio i termini della questione, prima però devo dirvi della decisione della Corte di Avezzano di “secretare” – se mi passate questo termine – l’udienza. Cosa è successo? Radio Radicale – come fa spesso – ha chiesto l’autorizzazione a seguire il processo e mandarlo in onda, rendendo in questo modo vivo il principio costituzionale della pubblicità del dibattimento. A Radio Radicale questa autorizzazione è sempre stata concessa. Stavolta invece il giudice ha deciso di vietare la trasmissione via radio. Perché? La motivazione è il Covid. Francamente non si capisce cosa c’entri il Covid. L’impressione – magari mi accuserete per questo di “sospetteria molesta” – è che Scarpinato abbia diritto a un processo riservato.

Lasciamo stare la mia posizione di imputato, che mi pare ormai largamente compromessa. Provo ad esaminare la situazione da giornalista e da osservatore. Ci sono due magistrati molto celebri che accusano due giornalisti fastidiosi di essersi occupati di cose che non li riguardano. E li querelano. Ci sono un Gip e un Gup che danno ragione ai propri colleghi, anche se nessuno può capire in cosa consista la diffamazione (ammenochè, a sorpresa, non si scopra che l’archiviazione non è stata mai chiesta e ottenuta). E ora si svolge un processo – un pochino surreale – nel quale è evidente la ragione dei due giornalisti ma è anche evidente il fatto che – chiunque conosca queste cose ve lo può confermare – le possibilità che dei magistrati perdano una causa contro dei comuni cittadini, o addirittura dei giornalisti, sono vicine allo zero. È un fatto statistico. Se poi questi magistrati sono famosi, potenti, ben inseriti nel meccanismo delle correnti, coccolati dal sistema dei media più importanti, a partire dal Fatto e da alcune Tv, le possibilità per i poveri imputati di non soccombere svaniscono del tutto.

Ora vi racconto bene in cosa consiste questo processo. Esisteva, tanti anni fa, il famoso dossier mafia-appalti. Era una super-inchiesta sulla mafia, avviata da Giovanni Falcone, condotta dai Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e che avrebbe dovuto finire nelle mani di Paolo Borsellino. Questa inchiesta, realizzata all’inizio degli anni Novanta, stava scoprendo tutti i legami tra la mafia siciliana e una rete di imprese e di potenze economiche del continente. Falcone ci teneva moltissimo. Anche Borsellino, che aveva cercato in tutti i modi di potersene occupare e che – poche settimane prima di morire – pare che avesse ottenuto la possibilità di essere effettivamente incaricato di seguire l’inchiesta. Borsellino riteneva che questo dossier fosse fondamentale. Anche Antonio Di Pietro, da Milano, ne aveva sentito parlare ed era molto interessato e ne aveva discusso con Borsellino.

Benissimo. Arriviamo al luglio del 1992. Seguite le date. Giovanni Falcone, che aveva dato il via al dossier, viene ucciso il 23 maggio. Non è escluso che il dossier possa essere stato la causa della sentenza di morte emessa da Cosa Nostra contro Falcone. Il 13 luglio Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, improvvisamente, firmano la richiesta di archiviazione del dossier-Mori. Il 14 luglio – cioè il giorno dopo – il Procuratore di Palermo, Giammanco, convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, per discutere di varie questioni. C’è pure Borsellino. Scarpinato non c’è. Borsellino chiede notizie del dossier, esprime il dubbio che sia in corso una sottovalutazione del lavoro dei Ros, accenna al fatto che un pentito sta parlando, chiede una riunione ad hoc nei giorni successivi. Nessuno sa – o dice – che è stata già firmata la richiesta di archiviazione. 19 luglio: la mattina molto presto Giammanco telefona a Borsellino. Secondo la testimonianza della moglie di Borsellino, gli assicura che avrà lui la delega per seguire il dossier. Alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso e la sua scorta sterminata. Tre giorni dopo, il 22 luglio, la richiesta di archiviazione del dossier viene formalmente depositata. L’iter è velocissimo: il 14 agosto, giorno nel quale da due o tre secoli la Procura non ha mai lavorato, avviene l’eccezione: qualcuno lavora e l’archiviazione è accolta e definitiva. Il dossier scompare.

Voi capite che questa vicenda è molto inquietante. Anche perché se non abbiamo sbagliato qualcosa in questa ricostruzione, è ragionevole il dubbio che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino sia stato il suo interesse per il dossier-Mori. Ipotesi diametralmente opposta a quella che viene sostenuta nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato -Mafia, nella quale – paradossalmente – Mori, cioè il carabiniere di fiducia prima di Dalla Chiesa e poi di Falcone e Borsellino, è imputato, e la tesi è che Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa e voleva fermarla. Ha un qualche interesse il confronto tra queste due tesi?

Ha un qualche peso il fatto che la prima tesi sia supportata da molti elementi certi? Damiano e io avevamo posto queste domande, e chiesto a Scarpinato e Lo Forte perché avessero archiviato. Non ci hanno risposto: ci hanno querelato. E la querela, come vi ho già detto, è approdata a un vero e proprio processo che si svolgerà, di fatto, a porte chiuse, in violazione della Costituzione. Beh, ammetterete che la lezione da trarre è triste e chiara. In Italia esiste la libertà di stampa ma ha un limite invalicabile: la critica alla magistratura. O almeno, la critica a quel pezzo potente di magistratura che, solitamente, noi chiamiamo il partito dei Pm. Quella non è ammessa. È vilipendio, è lesa maesta.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.